Novelle orientali di Marguerite Yourcenar

Letto per la prima volta a metà anni ’80 e poi riletto adesso. Perché l’ho già detto, mi piace rileggere gli stessi libri quando ne vale la pena; quando ritornano prepotenti, che ti ritrovi a cercarli nella tua libreria – pur avendone almeno un paio, di libri, ancora non letti che attendono sul comodino -, ma che poi inevitabilmente non trovi. Perché è sempre così, sembra una maledizione: hai centinaia di libri in fila in attesa di essere riletti, ma quando ne cerchi uno in particolare non lo trovi. Proprio quello? Sì, proprio quello! E allora; dopo averlo cercato inutilmente dappertutto per ore; dopo aver incolpato mia figlia Eleonora di avermelo preso, a torto; dopo aver telefonato ad amici e conoscenti, invano, te ne fai una ragione e lasci perdere? Non nel mio caso. Non con questo libro. E finisce inevitabilmente che mi ritrovo di nuovo a comprare lo stesso libro. Ed è così che trent’anni dopo o giù di lì ho avuto la conferma di avere tra le mani un piccolo grande capolavoro, che quando finisci di leggere pensi: Sì, la parola spiritualità mi è più chiara.
Dall’India alla Cina, dal Giappone alla Grecia e poi i Balcani Marguerite Yourcenar racconta temi difficili come i miti e le leggende, i sentimenti e la religione con un linguaggio semplice e poetico e frasi e pagine indimenticabili.
Non vi dirò che queste dieci novelle sono tutte dieci belle allo stesso modo. Non è così!
Due sono capolavori: Come Wang-Fô fu salvato, e Nostra Signora delle Rondini.
Il latte della morte
è la tragedia dolcissima di una madre che continua ad allattare il figlio fino allo svezzamento anche se è stata murata viva, è bellissima ma non è, a mio parere, paragonabile alle prime due. Le altre sette sono semplicemente belle… cosa tutt’altro da disprezzare che sia chiaro, ma le prime tre (ci metto anche la terza, dai!) sono pura magia, ti arrivano dritte al cuore.

Come Wang-Fô fu salvato

Il vecchio pittore Wang-Fô e il suo discepolo Ling se ne andavano lungo le strade del regno di Han.
Procedevano lentamente, perché Wang-Fô si fermava durante la notte per contemplare gli astri, e durante il giorno per ammirare le libellule. Il loro bagaglio era leggero. Infatti, Wang-Fô non amava tanto le cose, quanto l’immagine delle cose, e nessun oggetto al mondo gli sembrava degno di essere posseduto tranne pennelli, vasetti di inchiostro, rotoli di seta e di carta di riso.
Per il discepolo Ling, gli schizzi del maestro, erano preziosi come la volta celeste. Infatti, dentro al sacco che portava sulla schiena, agli occhi di Ling, vi erano montagne innevate, fiumi in primavera, fanciulle incantevoli dai seni gonfi come gemme che stanno per schiudersi.
Ling non era nato per percorrere le strade accanto ad un vecchio capace di captare il crepuscolo.
Suo padre era ricco, ed era cresciuto in una casa dove la ricchezza appianava ogni ostacolo.
Quell’esistenza ovattata lo aveva reso timido: temeva gli insetti, il tuono, e la faccia dei morti.
Quando ebbe raggiunto quindici anni, suo padre gli scelse una sposa e la prese bellissima, perché l’idea della felicità che procurava al figlio lo consolava di aver raggiunto l’età in cui la notte serve per dormire.
La sposa di Ling era fragile come una canna, infantile come il latte materno, dolce come la saliva, salata come le lacrime. Dopo le nozze, i genitori di Ling, spinsero la loro discrezione fino a morire e Ling amò quella donna dal cuore limpido come si ama uno specchio non destinato ad offuscarsi. L’unico lusso che si concedeva era frequentare con moderazione le case da tè, più che altro per obbedire alla moda.
Una notte, in una taverna si trovò come compagno di tavolo Wang-Fô. Il vecchio aveva bevuto per mettersi in condizione di dipingere meglio un ubriaco, ed era perciò particolarmente loquace.
Parlava come se il silenzio fosse un muro, e le parole fossero colori destinati a ricoprirlo.
Il vento irruppe di colpo dalla finestra, un rovescio di pioggia entrò nella camera e Wang-Fô si curvò per far ammirare al ragazzo la zebratura livida del lampo, e Ling smise di aver paura del temporale.
Ling pagò lo scotto del vecchio pittore: poiché Wang-Fô era senza soldi e senza un tetto, gli offrì lui umilmente un giaciglio.
Nel cortile il pittore notò la forma delicata di un arbusto al quale nessuno aveva mai badato e la paragonò ad una giovane donna intenta ad asciugarsi i capelli.
Nel corridoio egli seguì come in estasi, il cammino esitante di una formica lungo le crepe del muro e l’orrore che provava il ragazzo per quelle bestiole svanì.
Ling capì allora che il pittore gli aveva donato un’anima e percezioni nuove, e l’ospitò rispettosamente nella camera in cui erano morti i genitori.
Wang-Fô notò la bellezza irreale della moglie di Ling e la dipinse in più forme.
Da quando il marito le preferiva i ritratti che di lei faceva Wang-Fô, il suo viso appassiva come il fiore esposto al vento caldo e alle piogge d’estate. Wang-Fô la dipinse infine vestita da fata tra le nuvole del tramonto e la donna pianse perché si trattava di un presagio di morte.
Un mattino la trovarono impiccata ai rami di un susino rosa.
Sembrava ancora più esile del solito, e pura, come le bellezze celebrate dai poeti dei tempi andati.
Wang-Fò la dipinse un’altra volta, perché amava quel colorito verde che ricopre il viso dei morti, nelle prime ore.
Il suo discepolo Ling mescolava i colori, e questo lavoro richiedeva tanta attenzione da fargli dimenticare di versare delle lacrime.
In seguito Ling vendette la casa, e maestro e discepolo vagabondarono sulle strade del regno di Han.
La loro fama li precedeva nei villaggi.
Correva voce che il vecchio aveva il potere di dare vita alle pitture.
I fattori lo supplicavano, che dipingesse un cane da guardia, i signori volevano da lui immagini di soldati.
Ling mendicava il cibo, vegliava sul sonno del maestro approfittandone per massaggiargli i piedi.
Un giorno al tramonto raggiunsero i sobborghi della città Imperiale.
Si fermarono ad una locanda, ma una truppa di soldati giunse ad arrestarli.
Spinsero il maestro senza pietà e con le mani legate al palazzo Imperiale.
Il padrone celeste sedeva su un trono di giada e Wang-Fô inginocchiandosi disse: “Drago Celeste sono vecchio, povero, debole. Tu sei come l’estate; io sono come l’inverno. Tu hai diecimila vite, io ne ho soltanto una, che sta per finire. Mi hanno picchiato, legato le mani. Che cosa ti ho fatto?”
“Tu mi domandi cosa mi hai fatto, vecchio Wang-Fô?” disse l’imperatore. “Te lo dirò, ma per far ciò devo iniziare a raccontarti dai primi anni della mia vita. Per i primi sedici anni ho vissuto segregato dentro il palazzo imperiale. Intorno a me si era predisposta la solitudine per permettermi di maturare in lei. Non mi era permesso di vedere il mondo e non era permesso a nessuno di passare davanti alla mia soglia per paura che potessi essere contaminato. Quei vecchi servitori che mi erano stati concessi si manifestavano il meno possibile. Mio padre aveva nascosto una collezione delle tue pitture nella camera più segreta del palazzo. Intorno a me solo solitudine, sono cresciuto guardando i tuoi dipinti. Li guardavo la notte, quando non riuscivo a dormire, e per circa dieci anni li ho guardati tutte le notti. Tu mi hai fatto credere che il mare assomiglia a quella vasta distesa d’acqua offerta dalle tue tele, così azzurro che una pietra cadendoci non può che trasformarsi in uno zaffiro, che le donne si aprono e chiudono come fiori.
Finalmente a sedici anni il sogno di vedere il mondo vero si è avverato. Ho percorso le province dell’impero, ma ho trovato fango e pietre, il sangue dei suppliziati è meno rosso di una melagrana delle tue pitture, la carne delle donne vive mi ripugna come la carne morta che pende dai ganci dei macellai. Dove sono i giardini pieni di donne, simili a lucciole, le tue dame il cui loro corpo è esso stesso un giardino? Tu mi hai mentito, maledetto vecchio, il mondo non è che un cumulo di macchie confuse. Il regno di Han non è affatto come tu l’hai dipinto. L’unico regno sul quale vale la pena regnare è quello in cui penetri tu vecchio Wang. Tu soltanto regni in pace, sulle montagne coperte di una neve che non può sciogliersi, sui campi di narcisi che non possono morire. Per questo ho studiato a lungo quale supplizio riservarti per vendicarmi, ed ho deciso di bruciarti gli occhi, perché essi sono le tue porte magiche che spalancano il tuo regno. E di tagliarti le mani, che sono le strade che ti portano nel cuore del tuo regno”.
Ascoltando una simile sentenza il discepolo Ling si lanciò sull’imperatore. Uno dei soldati alzò la sciabola e la testa di Ling si staccò dalla nuca.
Poi l’imperatore continuò annunciando che gli avrebbe esaudito l’ultimo desiderio, prima di compiere i suoi progetti.
“Ti offrirò pennelli, inchiostro, colori, per occupare le tue ultime ore in modo che tu possa immortalare in un ultimo dipinto la tua arte. Devi sapere che nella collezione delle tue opere io possiedo una pittura stupenda dove si riflettono le montagne, i fiumi, il mare, rimpiccioliti all’infinito, sì, ma con un’evidenza che supera quella degli oggetti stessi. Ma questa pittura non è terminata, il tuo capolavoro è solo allo stato d’abbozzo. Mentre dipingevi devi certo esserti distratto guardando un uccello che passava o inseguendo una libellula. Voglio che tu completa la tua opera.” Ad un cenno del mignolo dell’imperatore due eunuchi portarono la tela e Wang-Fô smise di piangere l’amico ammazzato, perché quel piccolo schizzo gli ricordava la giovinezza. Tutto era testimone di una freschezza d’anima e Wang-Fô sorrise, tuttavia gli mancava qualcosa. Ai tempi in cui aveva dipinto la tela, non aveva contemplato abbastanza montagne, né scogli che immergessero nel mare i loro fianchi nudi, e non aveva ancora penetrato la tristezza del crepuscolo. Un eunuco accovacciato ai piedi del maestro mescolava i colori e mai come adesso Wang-Fô rimpianse il suo discepolo Ling. Wang-Fô cominciò a stendere con un pennello larghe strisce azzurre su quel mare incompiuto. Poi aggiunse alla superficie del mare piccole righe destinate ad approfondirne la serenità. Il pavimento di giada si faceva stranamente umido ma preso Wang-Fô dalla sua pittura e l’Imperatore e la sua corte immobili sul dipinto, nessuno si accorgeva che l’acqua arrivava alla cintola del maestro. Un fragile canotto ingrossato sotto le pennellate del pittore occupava ora tutto il primo piano del dipinto. Il rumore dei remi si annunciò all’improvviso, nella sala dove Imperatore e cortigiani erano immersi nell’acqua oramai fino alle spalle. Il silenzio era così profondo che si sarebbe sentita cadere una lacrima.
Ma ecco Ling apparire dal canotto, con una sciarpa rossa al collo.
“Ti credevo morto” gli disse Wang-Fô, senza smettere di dipingere.
“Essendo voi in vita maestro come avrei potuto morire”, rispose Ling.
Aiutò a salire sulla barca il maestro e disse: ”Il mare è bello, il vento favorevole, partiamo”.
Wang-Fô prese il timone e Ling si curvò sui remi. La cadenza delle pale riempì di nuovo tutta la sala. La barca non occupava più tutto il primo piano della pittura e man mano il livello dell’acqua scendeva dal pavimento di giada dell’imperatore.
Il pulsare dei remi si affievolì e cessò del tutto, la barca non era che una piccola macchia nell’infinito mare del dipinto, e a stento si distinguevano due figure sedute sul canotto. Si vedeva una barba bianca e una sciarpa rossa che ondeggiava nel vento.
I vestiti dei cortigiani erano di nuovo secchi e non restava che qualche goccia di rugiada sulla punta dei nasi e qualche fiocco di schiuma nella frangia del mantello dell’Imperatore.
Poi la barca virò intorno a uno scoglio che sbarrava l’apertura verso il largo; le scivolò addosso l’ombra di una roccia; la superficie deserta assorbì la scia, e il pittore Wang-Fô e il suo discepolo Ling disparvero per sempre sul mare di giada azzurra che poco prima Wang-Fô aveva inventato.

Nostra Signora delle Rondini

Il monaco Terapione era stato in gioventù il più fedele discepolo del grande Atanasio; era rude, austero, dolce soltanto verso le creature nelle quali non sospettasse la presenza di diavoli. In Egitto aveva risuscitato ed evangelizzato delle mummie; a Bisanzio aveva confessato imperatori; era venuto in Grecia sulla fede di un sogno, con l’intenzione di esorcizzare questa terra ancora soggetta ai sortilegi di Pan. S’infiammava di odio vedendo certi alberi sacri ai quali i contadini colpiti dalla febbre appendevano stracci incaricati di tremare per loro al minimo alito serale.
I contadini adoravano Gesù, il figlio di Maria, vestito d’oro come un sole nascente, ma il loro cuore ostinato rimaneva fedele alle divinità che si annidavano negli alberi o emergevano dal ribollio delle acque; ogni sera posavano sotto il platano consacrato alle Ninfe una scodella di latte della sola capra superstite. Quasi ogni giorno qualche mandria stregata si perdeva nella montagna, e qualche mese dopo non se ne trovava che qualche mucchietto d’ossa. Le Ninfe maligne prendevano per mano i bambini e li portavano a ballare sull’orlo dei precipizi, finché l’abisso risucchiava i loro corpicini. Dopo ogni disastro il monaco mostrava il pugno ai boschi dove le maledette si nascondevano, ma i contadini continuavano ad amare quelle fresche fate e le perdonavano, come si perdona al sole che disintegra il cervello dei matti, alla luna che succhia il latte delle madri addormentate, e all’amore che fa tanto soffrire.
Il monaco le temeva come un branco di lupe e loro lo evitavano come un gregge di prostitute.
Un mattino gli abitanti del villaggio trovarono il loro monaco tutto intento a segare il platano delle Ninfe, e doppiamente se ne addolorarono…
Ma non rimproverarono il santo uomo per timore di guastarsi con il Padre che è nei cieli, dispensatore di pioggia e di sole. Se ne stettero zitti, e il monaco proseguì l’intento.
Piantava croci ovunque, e le giovani bestie divine indietreggiavano…
Alla fine, circondate dalla preghiera e dal fuoco, ridotte all’osso per l’assenza d’offerte, prive d’amore da quando i giovani del villaggio avevano preso ad evitarle, le Ninfe cercarono rifugio in una valle deserta in fondo alla quale si apriva una grotta. Sempre le Ninfe vi si erano rifugiate nelle sere in cui il temporale disturbava i loro giochi, perché temevano il tuono, come tutte le bestie dei boschi.
Riunì i più fedeli e i più rozzi fra i suoi seguaci, li armò di zappe e di lanterne e circondò la grotta deciso a distruggere quei pericolosi resti della razza degli Dei.
Il monaco Terapione, proprio dove si apriva la bocca della grotta, aveva piantato un grande Cristo dipinto su una croce dalle quattro braccia eguali, e le Ninfe che capiscono soltanto i sorrisi indietreggiavano inorridite davanti a quell’immagine del Suppliziato. Per le prime ore le fate dell’amore continuarono a ridere e a giocare provocando con versi o mostrando nella penombra la pallida rosa di un seno. Ma ben presto non si sentirono che lamenti e pianti, le ninfe indebolite non avevano più la forza per manifestarsi agli umani, e il loro corpo si decomponeva in vapore.
Quella notte i contadini stanchi ridiscesero al villaggio, ma il monaco Terapione si coricò accanto alla cappella da lui costruita, e tutta la notte i lamenti delle sue prigioniere gli impedirono deliziosamente di dormire. Eppure era un uomo compassionevole: si inteneriva difatti su un verme che avesse schiacciato con un piede, o su uno stelo di fiore rotto dallo sfioramento della sua tonaca, ma era simile a un uomo capace di rallegrarsi per aver murato fra due mattoni un nido di giovani vipere.
Al declinare di quel giorno il monaco Terapione vide sul sentiero una donna che gli veniva incontro. Benché fosse giovanissima aveva la gravità, la lentezza e la dignità di una donna molto vecchia.
«Questo sentiero non porta da nessuna parte, donna» le disse. «Di dove vieni?»
«Da Est, come il mattino» disse la giovane. «E tu cosa fai qui, vecchio monaco?»
«Ho murato in questa grotta le Ninfe che infestano ancora il mondo» disse il monaco. «Aspetto che muoiano di fame e di freddo nella loro caverna, e allora la pace di Dio regnerà nei campi».
«Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e ai greggi delle capre? Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan? E altri si fissarono su una montagna, dove divennero Déi dell’Olimpo».
«La mia mente non sa innalzarsi tanto», disse umilmente il monaco. «Le ninfe turbano i miei fedeli e mettono in pericolo la loro salvezza di cui io sono responsabile davanti a Dio, e per questo io le perseguiterò, se è necessario, fino all’inferno».
«Monaco, lasciami entrare in questa grotta”, disse la giovane. La sua voce era dolce come la musica di un flauto. “Io amo le grotte, e sento compassione per chi vi cerca rifugio. È in una grotta che io ho messo al mondo il mio bambino ed è in una grotta che l’ho affidato senza timore alla morte, perché subisse la seconda nascita della Resurrezione”.
Maria entrò e parlò in una lingua sconosciuta che era forse quella degli uccelli e degli angeli. Dopo un po’ riapparve accanto al monaco, indossava uno strano mantello, sotto il quale le uscivano innumerevoli gridolini stridenti. Ne scostò i lembi, e il monaco vide che nelle pieghe del suo abito ella portava centinaia di giovani rondini. Come una donna in preghiera spalancò le braccia, dando così libertà agli uccelli. “Andate mie creature”, e centinaia di rondini filarono via nel cielo. Poi Maria disse: “Ritorneranno ogni anno e tu le accoglierai nella mia chiesa”. E Maria se ne andò per il sentiero che non porta da nessuna parte, come una donna che importi ben poco che le strade finiscano, dal momento che sa come camminare nel cielo.
Il vecchio Terapione fece come disse Maria, aspettava ogni anno il ritorno delle rondini, interrompendo sovente le sue preghiere per seguire intenerito i loro amori e i loro giochi, perché ciò che è proibito alle Ninfe è permesso alle rondini.

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Queste due novelle sono a mio parere così straordinarie che non ho potuto, nel farvi un riassunto, utilizzare altre parole se non quelle dell’autrice stessa; qualsiasi personale tentativo – e ci ho anche provato – mi pareva un sacrilegio!

Un’ultima curiosità su Nostra Signora delle Rondini: rappresenta il desiderio della Yorcenaur di spiegare il graziosissimo nome di una piccola cappella della campagna attica. L’autrice ha rivelato che è l’unica, delle dieci novelle, interamente inventata.
Tutti noi viaggiamo, scopriamo luoghi e posti nuovi, in ogni dove rimaniamo incantati da bellezze inaspettate: è il bello della vita! Vorremmo impossessarcene ma non possiamo, e allora ce le segniamo, le fotografiamo per non dimenticarle, poi ci capita tra le mani questo capolavoro della Yorcenaur e scopriamo che ci sono persone al mondo capaci dal nulla – da un graziosissimo nome di una piccola cappella – ad immortalare per davvero un’emozione, anzi di più: a dargli una vita propria… che invidia!

Novelle Orientali di Marguerite Yourcenar. Uscito per la prima volta in Francia nel 1938. Prima edizione Rizzoli 1983. Quarta edizione BUR Contemporanea gennaio 2017.

Voto: 5/5

Ripropongo infine, era da un po’ che non succedeva, la colonna sonora di questo libro. Ho scelto Bocca di Rosa, di Fabrizio De André. Voglio chiarire che è riferita a Nostra Signora delle Rondini. Non ho trovato nessuna canzone  adatta a tutti dieci i racconti. Chiunque, avendo letto il libro o leggendolo, avesse un’idea diversa, magari perfetta per tutte le novelle è autorizzato a proporla.

Persino il parroco che non disprezza
fra un miserere e un’estrema unzione
il bene effimero della bellezza
la vuole accanto in processione.

E con la Vergine in prima fila
e bocca di rosa poco lontano
si porta a spasso per il paese
l’amore sacro e l’amor profano.

Qui la potete ascoltare. Mi piace questa contrapposizione, tra ciò che bene e ciò che è male, amore sacro e amore profano, che è alla base sia di questa splendida canzone che della novella.

Bocca di Rosa fu pubblicata per la prima volta nel 1967 come singolo (lato B), nel 45 giri Via del campo/Bocca di rosa.

 Voto: 5/5

 

 

 

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Sono nato a Modena nel 1964 e vivo in un paese che è parte dell’Unione dei Comuni del Distretto Ceramico. Da 35 anni faccio piastrelle. Mi occupo di ricerca. Crescere, crescere, crescere: non esistono altri obbiettivi. Ogni anno è una sfida. Sposato con due figli, da quattro anni scrivo su questo blog. Ma fin dal primo articolo ho capito che recensire un libro, un film o una canzone non è che un pretesto per raccontarmi: pensieri, passioni, desideri. Ricordi. Il vero scopo è fermare il tempo. Trattenere il più possibile istanti di felicità.

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