Hotel Silence

Dalla quarta di copertina:

Jónas ha quarantanove anni e un talento speciale per riparare le cose. La sua vita, però, non è facile da sistemare: ha appena divorziato, la sua ex moglie gli ha rivelato che la loro amatissima figlia in realtà non è sua, e sua madre è smarrita nelle nebbie della demenza. Niente sembra avere più senso: Jónas vuole farla finita, ma quando lascia l’Islanda (per attuare il suo progetto lontano da tutti) scoprirà che c’è sempre, sempre una seconda possibilità.

Hotel Silence (eletto Libro dell’anno dai librai islandesi) è un romanzo poetico e delicato, un inno alla capacità della vita di rigenerarsi e trasformarsi. Ed è il libro più bello di Auður Ava Ólafsdóttir.

 Auður Ava Ólafsdóttir è nata a Reykjavik nel 1958. Per Einaudi ha pubblicato Rosa candida, La donna è un’isola, L’eccezione, e Il rosso vivo del rabarbaro. Hotel Silence ha vinto l’Icelandic Literature Prize.

È innanzitutto, pur trattando il tema della depressione e della solitudine, un inno alla vita.
Ha poi la particolarità di essere pieno di citazioni. Nella maggioranza dei casi sono i titoli dei capitoli e, a mio parere, contribuiscono alla buona riuscita del libro stesso.
Chi ha già letto i miei articoli sa quanto mi piacciono le citazioni, sa che le uso spesso anch’io. Quindi per non essere da meno e per commentare al meglio l’opera ve ne propongo altre, più una storiella.

Parto dalla storiella:

Ah sì?

Il maestro Zen Hakuin era decantato dai vicini per la purezza della sua vita.
Accanto a lui abitava una bella ragazza giapponese, i cui genitori avevano un negozio di alimentari.
Un giorno, come un fulmine a ciel sereno, i genitori scoprirono che era incinta.
La cosa mandò i genitori su tutte le furie.
La ragazza non voleva confessare chi fosse l’uomo, ma quando non ne poté più di tutte quelle insistenze, finì col dire che era stato Hakuin.
I genitori furibondi andarono dal maestro, lo insultarono e gli imposero di mantenere la ragazza e il bambino.

«Ah sì?» disse lui come tutta risposta.
Quando il bambino nacque, lo portarono da Hakuin.
Ormai il monaco aveva perso la propria reputazione, cosa che lo lasciava indifferente, ma si occupò del bambino e della giovane con grande sollecitudine.
Si procurava dai vicini il latte e tutto quello che occorreva al piccolo.
Si mise inoltre a intrecciare un maggior numero di stuoie per poter mantenere i due nuovi venuti.
Dopo un anno la giovane, annoiata di vivere con Hakuin, non resistette più, si pentì e disse ai genitori la verità: il vero padre del bambino era un giovanotto che lavorava al mercato del pesce.La madre e il padre della ragazza, cosi come anche i vicini, andarono subito da Hakuin a chiedergli perdono, a fargli tutte le loro scuse e a riprendersi il bambino e la giovane.
Hakuin non fece obiezioni.
Nel cedere il bambino, tutto quello che disse fu: «Ah si?».

da 101 STORIE ZEN (Piccola biblioteca Adelphi)

In un romanzo concettualmente laico c’è chi si domanderà cosa c’entra lo Zen, chi storcerà il naso, ma… datemi fiducia: chissà che non vi faccia cambiare idea.

Dunque, il programma del protagonista del libro è di suicidarsi in un paese straniero; così che il suo corpo venga ritrovato da estranei e non dalla figlia amata. Facile a dirsi, ma la realtà non è mai quella che t’aspetti e non è poi così facile per Jónas far finta di nulla: chiudere semplicemente gli occhi e tapparsi  le orecchie, quando intorno a lui c’è così tanta desolazione, così tanta vita; quando giorno dopo giorno quegli stessi estranei che nel suo progetto iniziale dovevano rimane tali diventano conoscenti, e poi amici: uomini, donne e bambini che pur tra mille difficoltà, dolori e cicatrici non mollano.
Risultato: Jónas quasi si vergognerà della pochezza del suo dramma personale, comprenderà che la vita è più forte di qualsiasi tragedia. E proprio in questo paese devastato dagli orrori della guerra ritroverà serenità, equilibrio e la voglia di vivere.

Poi lei di punto in bianco mi si para di fronte con le mani sui fianchi e vuole avere informazioni più dettagliate sul vero scopo della mia presenza qui.
– Non convince per niente la storia che lei è qua in vacanza, – dice. – Col trapano.
Si toglie l’elastico dai capelli per rimetterselo subito dopo.
Rimango in silenzio. Sono bravo, a rimanere in silenzio.
La ragazza mi guarda dritto negli occhi, non desiste.
– Perché è qui?
Io esito, e smetto di ripetere ancora una volta di essere in vacanza. Dico invece:
– Non sono sicuro.
Lei mi scruta.
– È venuto qui a prendere qualcosa? A comprare qualcosa?
– No.
– A vendere?
– No. Non ho nessun piano.
Non posso dire a questa giovane donna, che tanto ha faticato per sopravvivere con suo figlio e il fratello più piccolo sotto una pioggia di bombe – in una terra dove il sangue scorre nei letti dei fiumi e le squadre della morte imperversavano fino a poche settimane fa, tingendo l’acqua di rosso – non posso dirle di aver fatto tutta questa strada per ammazzarmi. Non posso spiegare a queste persone che sono venuto con la cassetta degli attrezzi per piantare un gancio nel soffitto, che viaggio con il trapano come gli altri viaggiatori viaggiano con lo spazzolino da denti, non posso dirle – dopo tutto quello che ha passato – che ho intenzione di affidare a lei e a suo fratello il compito di tirarmi giù. La mia infelicità nel migliore dei casi è un’idiozia, quando rovine e polvere si aprono davanti agli occhi fuori dalla finestra.

. . . . .

Con Mai ci troviamo al secondo piano dell’edificio, sto terminando di prendere le misure delle finestre quando mi accorgo che lei è diventata inquieta.
– C’è una cosa di cui volevo accennarle, prima che lei incontri le altre, – dice appoggiandosi a una parete. – Il fatto è che, proprio come noi non discutiamo su chi ha fatto che cosa, così a nessuna si chiede quel che ha dovuto subire.
– Capisco.
Sento che è molto agitata.
– Non si domanda a un uomo se ha ucciso o a una donna se e da quanti è stata violentata.
– No, non deve preoccuparsi, io non farò nessuna domanda.
– E non si chiede, quando si vede un bambino, se è figlio di una donna che è stata stuprata da un soldato nemico.
– No, certo che no.
Si sistema un ricciolo, lo spinge sotto il fermaglio.
– Tutte le donne subiscono violenze, in guerra, – continua senza guardarmi.
Penso a quanto è giovane e a quante ne ha già viste.
– I soldati non bussano e non chiedono il permesso di poter sparare.
– No, non lo fanno.
Di nuovo si sistema i capelli.
– L’unico modo per riuscire ad andare avanti è far finta di vivere una vita normale. Fare come se tutto fosse a posto. Fare come se non si vedesse la devastazione.
Noto che porta dei piccoli orecchini di perla che si palpa di tanto in tanto, come per accertarsi che siano al loro posto. Glielo accenno e le dico che sono molto belli.
– Erano della mamma, – e fa per aggiungere qualcosa, poi ci ripensa.
Esita:
– Nonostante la paura, io tengo sempre a mente le stelle della notte. E la luna, sì anche.
– È da tanto che è solo?
– Sei mesi.
Se mi avesse chiesto «da quanto tempo di sente solo», le avrei risposto che sono otto anni e cinque mesi.
È proprio della solitudine che mi domanda subito dopo:
– Non si sente solo?
– A volte succede.
Mi si avvicina, arriva quasi a toccarmi.
– Non ha voglia di sentire il calore di un altro corpo?
Io rimango in silenzio, poi dico:
– È passato tanto tempo.
– Quanto?
– Tanto.
– Più di due anni?
Devo fidarmi di lei, su questo punto?
Inspiro profondamente, prima di dirglielo:
– Otto anni e cinque mesi.
Avrei potuto aggiungere: più undici giorni.
Mi sfiora delicatamente, sento la vicinanza crescere come una luna piena.
Devo dirle che al momento non lo so più fare? Che ho paura?
Esitò:
– Lei ha l’età di mia figlia.
Sono più vecchia, – dice lei, – sono più vecchia anche di te. Ho duecento anni e ho visto tutto…

. . . . .

L’errore di Jónas è aver pensato che la vita non avesse più senso, o che avesse un senso…
L’errore di Jónas è sentirsi superiore, speciale.
Del resto non è vero che noi umani ci diamo troppo importanza?
Se smettessimo una volta per tutte di considerarci così speciali, superiori a tutto e a tutti, e vivessimo semplicemente la nostra vita, non verrebbe automatico accettare il bello ed il cattivo tempo?
Io ritengo che questo romanzo, oltre ad essere molto bello, insegni tutto questo.
Ritengo che Hotel Silence sia uno dei romanzi più Zen che ho letto. Perché lo Zen è innanzitutto la capacità di vivere il qui-ed-ora, è lasciar andare i pensieri.

Perché  come dice il grande Vasco:

la vita va avanti anche senza di noi

e ancora (seconda citazione, sempre di Vasco)

anche se questa vita un senso non ce l’ha

 Del resto è la madre stessa di Jónas (da tempo malata di demenza senile) che gli rivela in un sogno:

«Anziché smettere di esistere, non puoi smettere di essere tu, e diventare un altro?»

Lascia che sia, quindi, lasciati andare, lasciati semplicemente trasportare.

Perché (terza citazione):

Anche quel muro vecchio
anche quel magro cane
anche il gelo nel secchio
gode il sole, stamane.
Li Po (701/762)

E aggiungo io: anche Jónas, con o senza i suoi problemi, gode il sole stamane…

Veniamo alla storiella:

Il maestro Hakuin viene infamato dai genitori della ragazza e lui che fa?
Vive semplicemente la sua vita, senza preoccuparsi delle dicerie del paese. Avrebbe potuto provare a discolparsi e invece non nega e non afferma nulla, chiede semplicemente Ah sì?
Del resto avrebbe mai convinto delle persone così in collera?
C’è un detto orientale che dice:

in una discussione impara di più chi viene sconfitto

Ma in una discussione, in un litigio ascoltate mai il vostro interlocutore?
La verità è che quasi sempre – per non dire sempre – invece di ascoltare il tuo avversario ti stai già preparando al contrattacco, per tanarlo, per avere ragione. La verità è che non sei interessato alla verità, ti interessa solo avere ragione.
E poi ad Hakuin non interessa essere insultato e calunniato, le cose gli scivolano semplicemente di dosso.
Gli hanno affidato un bambino pensando sia suo, un bambino indifeso che non ha nessuna colpa, e lui semplicemente lo accudisce.
Lasciare andare quindi, Hakuin come Jónas, e restare in silenzio come sembra invitarci l’autrice stessa del romanzo, con la scelta tutt’altro che scontata di intitolare la sua opera Hotel Silence.
Del resto Jónas non è mai stato un chiacchierone.

Vi ho detto che il libro è pieno di citazioni.

Questa la mia preferita:

Certo, io sono una selva e una notte di alberi scuri:
ma chi non ha paura delle mie tenebre,
troverà anche pendii di rose sotto i miei cipressi.
(da Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche)

Mi ha ricordato questa bellissima poesia:

Vidi morto mio nonno, sul letto. Ero bambino.
Volli sentir se il corpo, lì disteso , puzzava.
Sentii, dalla finestra aperta sul giardino,
salire odor di rose, che il morto coltivava.
Li Po (701/762)

Perché anche nella più pura disperazione, in un lutto o in guerra possiamo cogliere un raggio di sole, un profumo, una rosa… la vita!

Hotel Silence di Auður Ava Ólafsdóttir. Edizioni Einaudi 2018. Traduzione Stefano Rosatti.

Voto: 5/5

Per questo articolo avevo deciso di non proporvi nessuna colonna sonora. Nulla mi sembrava adatto.

Poi questa mattina in auto ho riascoltato una canzone di Francesco Guccini che mi ha fatto cambiare idea.

La vedi nel cielo quell’alta pressione?
La senti una strana stagione?
Ma a notte la nebbia ti dice d’un fiato che il Dio dell’inverno è arrivato.
Lo senti un aereo che porta lontano?
Lo senti quel suono di un piano,
di un Mozart stonato che prova e riprova,
ma il senso del vero non trova?
Lo senti il perché di cortili bagnati,
di auto a morire nei prati,
la pallida linea di vecchie ferite,
di lettere ormai non spedite?
Lo vedi il rumore di favole spente?
Lo sai che non siamo più niente?
Non siamo un aereo né un piano stonato,
stagione, cortile od un prato.
Conosci l’odore di strade deserte che portano a vecchie scoperte,
a nafta, telai, ciminiere corrose,
a periferie misteriose,
a rotaie implacabili per nessun dove,
a letti, a brandine, ad alcove?
Lo sai che colore han le nuvole basse e i sedili di un’ex terza classe,
l’angoscia che dà una pianura infinita,
hai voglia di me e della vita,
di un giorno qualunque, di una sponda brulla?
Lo sai che non siamo più nulla?
Non siamo una strada né malinconia,
un treno o una periferia,
non siamo scoperta né sponda sfiorita,
non siamo né un giorno né vita.
Non siamo la polvere di un angolo tetro
né un sasso tirato in un vetro,
lo schiocco del sole in un campo di grano,
non siamo, non siamo, non siamo.
Si fa a strisce il cielo e quell’alta pressione
è un film di seconda visione,
è l’urlo di sempre che dice pian piano:
“Non siamo, non siamo, non siamo.”
Più che sapere cosa siamo, per sottrazione sappiamo cosa non siamo.
Non siamo, non siamo, non siamo…
Quello che non… di Francesco Guccini, che dà anche il titolo al quindicesimo album di Francesco del 1990.

Voto: 5/5

Cliccando QUI la potete ascoltare.

 

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Sono nato a Modena nel 1964 e vivo in un paese che è parte dell’Unione dei Comuni del Distretto Ceramico. Da 35 anni faccio piastrelle. Mi occupo di ricerca. Crescere, crescere, crescere: non esistono altri obbiettivi. Ogni anno è una sfida. Sposato con due figli, da quattro anni scrivo su questo blog. Ma fin dal primo articolo ho capito che recensire un libro, un film o una canzone non è che un pretesto per raccontarmi: pensieri, passioni, desideri. Ricordi. Il vero scopo è fermare il tempo. Trattenere il più possibile istanti di felicità.

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2 pensieri riguardo “Hotel Silence

  1. sto leggendo Hotel Silence, ne ho passata la metà del libro, e davvero rileggendo l’articolo lo trovo molto più bello e significativo, trovo giusta ogni tua parola. Bravo!
    Luisa

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