Un paio di domeniche fa io e mia moglie Luisa siamo andati a Vignola, alla festa dei ciliegi in fiore.
Ora, a parte che tornando a casa ci siamo fermati a fotografare un bella coltivazione di fiori da frutto, tutti belli allineati, convinti che fossero ciliegi – che se no che festa del ciliegio in fiore è? – ma che ciliegi proprio non erano. È stato Il contadino stesso a smontarci, quando ingenuamente gli abbiamo fatto i complimenti:
«Che bella piantagione di ciliegi che ha, è un po’ che giriamo in macchina e stavamo per rinunciarci…».
«E avreste fatto bene perché per i ciliegi bisogna aspettare ancora almeno un paio di settimane, come tutti gli anni».
«Ma allora che frutti sono?»
«Susine», rispose il contadino scuotendo la testa.
A parte la figuraccia, dicevo, è stata una bella domenica: tante bancarelle di fiori, tanti stand gastronomici, quelli non mancano mai, e poi le solite bancarelle di artigianato, antiquariato, bigiotteria, libri usati.
Libri usati che ultimamente mi danno poche soddisfazioni; cioè voglio dire sono sempre più o meno gli stessi e dello stesso genere: cucina, viaggi, collezione Harmony, tanto per intenderci. Ma stavolta no, e mi finisce in mano un libro inaspettato, un libro da cui il mitico Clint Eastwood ha tratto uno dei più bei film d’amore di tutti i tempi: I ponti di Madison County.
Questo articolo è figlio di quella fiera, di quella bancarella e di questo libro usato, che naturalmente ho comprato e letto: ciliege o susine cambia poco, vorrei dire ora al contadino… ma non c’è più!
Per chi non avesse visto il film – vi assicuro che è spiccicato al libro – è l’incontro tra un uomo e una donna, un incontro travolgente.
Dalla seconda di copertina:
I ponti di Madison County è la storia di Robert Kincaid, fotografo di fama, e Francesca Johnson, moglie di un agricoltore. Kincaid, singolare, quasi mistico viaggiatore dei deserti asiatici, di fiumi lontani, di antiche città, è un uomo che quasi non appartiene al suo tempo. Francesca Johnson, un’italiana giunta in America come sposa di guerra, vive tra le colline dello Iowa meridionale e, di tanto in tanto, torna col pensiero ai suoi sogni di ragazza. Nessuno dei due ha mai cercato qualcosa di diverso da ciò che ha, ma quando Robert, in viaggio per un servizio, entra nel cortile di lei per chiedere un’informazione, il ritmo delle loro esistenze si spezza sotto la forza di un’emozione inesprimibile. L’incontro tra Robert e Francesca diventa rapidamente un legame profondo e ciò che accade durante pochi giorni di una torrida estate, presso i vecchi ponti coperti di Madison County, è per entrambi un’esperienza così intensa da trasfigurare i luoghi consueti e i gesti quotidiani. I momenti trascorsi insieme diventano un patrimonio raro e prezioso di sentimenti a cui attingere per il resto della vita e che sopravviverà a loro stessi.
Scritto da Robert James Waller nel 1992 è tratto da una storia vera, fin dall’inizio curiosa e anomala.
È il 1989, l’anno di morte di Francesca, i figli Michael e Carolyn trovano i diari e le lettere della madre, testimoni della sua storia d’amore con un certo Robert Kincaid, testimoni del tradimento della madre, ed è così che dopo il primo imbarazzo decidono di contattare uno scrittore, affidandogli storia e materiale perché non vada persa. Cioè voglio dire, quanti figli lo farebbero? Non sarebbe più facile far finta di niente e tenere tutto nascosto? E poi una storia d’amore del 1965, durata appena quattro giorni…
Probabilmente in pochi, pochissimi, ma non Carolyn e Michael che, dopo il trauma iniziale, comprendono leggendo i diari della madre quanto fosse forte quel loro amore, e quanto deve essere stata dura per la madre rinunciarvi: per il bene del padre, che mai avrebbe capito, e per il bene di loro stessi.
La seconda anomalia è scegliere uno scrittore che non ha mai pubblicato un romanzo: un professore di management ed economia, che fino ad allora aveva scritto solamente due saggi.
È lo stesso Robert James Waller che lo spiega, nel prologo iniziale del libro, intitolato: L’inizio.
Raccontando della strana proposta che riceve per telefono da Michael Johnson e Carolyn, e del loro successivo incontro:
Un amico gli ha inviato uno dei miei libri. Michael Johnson l’ha letto; l’ha letto anche la sorella Carolyn, e hanno da propormi una storia che credono possa interessarmi.
[…] Così ascolto. Ascolto con attenzione e faccio domande precise. E loro parlano. Parlano interrottamente. In certi momenti Carolyn piange apertamente e Michael si sforza di non imitarla. Mi mostrano dei documenti dei ritagli di giornale a alcuni diari appartenenti alla loro madre, Francesca. Il cameriere entra ed esce dalla camera. Ordiniamo dell’altro caffè. E mentre loro parlano, io comincio a vedere immagini, prima; solo in seguito arrivano le parole. Ed ecco incomincio a sentire le parole, incomincio a vederle scritte sulla pagina. A un certo punto, la mezzanotte è passata da poco, accetto di scrivere la storia… o almeno di provarci.
. . . . .
Questo è uno dei primi dialoghi di Francesca e Robert:
«Che cosa fa esattamente… voglio dire nel campo delle fotografia?»
Lui parlò con voce pacata, guardando la sigaretta.
«Ho un contratto con il National Geographic, ma non occupa tutto il mio tempo. Quando mi viene un’idea, la vendo alla rivista e mi occupo della parte fotografica. Oppure sono loro a contattarmi per affidarmi qualche incarico. Non c’è molto spazio per l’espressione artistica; è una pubblicazione di stampo conservatore. Ma i compensi sono decenti. Non fantastici, ma decenti, e regolari.
[…] “A volte scrivo poesie, ma lo faccio esclusivamente per me. Di tanto in tanto mi cimento con la narrativa, anche se non mi appassiona più di tanto.
[…] «E lei?»
Francesca non aveva previsto la domanda. Esitò un istante. «Oh, Dio, niente di così interessante. Mi sono laureata in letteratura comparata. Quando arrivai a Winterset, nel 1946, c’era carenza di insegnanti, e l’aver sposato uno del luogo, e un veterano per di più, mi rese bene accetta alla comunità. Così ottenni l’abilitazione e per qualche anno insegnai inglese alle superiori. Ma a Richard non piaceva che lavorassi. Diceva che era perfettamente in grado di mantenerci e che non c’era alcuna necessità che continuassi, soprattutto considerando che i bambini stavano crescendo. Alla fine smisi e divenni una moglie di agricoltore a tempo pieno. Questo è tutto.»
Si accorse che lui aveva bevuto quasi tutto il tè e gliene versò dell’altro.
«Grazie. Le piace vivere nello Iowa?»
Era quello il momento della verità, comprese lei. La risposta standard era: «Certo. È tranquillo, qui. E la gente è simpatica».
Non rispose subito. «Potrei avere un’altra sigaretta?» Di nuovo il pacchetto di Camel, di nuovo il leggero contatto con la sua mano. Il sole inondò la veranda sul retro e il cane si alzò e scomparve alla vista.
Per la prima volta, Francesca guardò Robert Kincaid negli occhi.
«Immagino che dovrei dire: ‘Certo. È tranquillo, qui. E la gente è simpatica’. È tutto vero, o quasi. È tranquillo. E la gente è a posto, per certi versi. Ci aiutiamo gli uni con gli altri. Se qualcuno si ammala o si fa male, sono i vicini a mietere il granoturco o a tagliare l’avena, a fare tutto quello che c’è da fare. In città, non c’è bisogno di chiudere l’auto e i bambini possono correre dove vogliono; non c’è nessun pericolo. La gente di qui ha una sacco di buone qualità e io la rispetto per questo.
«Ma…» esitò, tirò una boccata, guardò Robert Kincaid che le sedeva di fronte, «non, è quello che sognavo quando ero ragazza.» La confessione, finalmente. Da anni quelle parole erano annidate dentro di lei, e non le aveva mai pronunciate. Ma lo aveva fatto ora , davanti a un uomo arrivato su un furgone verde da Bellingham, Washington.
Per un momento lui non parlò. Poi disse: «Qualche giorno fa ho scarabocchiato qualcosa sul mio taccuino, pensando di servirmene in futuro. L’idea mi era venuta mentre guidavo; mi capita spesso. Il senso era più o meno questo: ‘I vecchi sogni erano bei sogni; non si sono avverati, ma sono contento di averli coltivati’. Non so bene che cosa significhi, ma ho l’impressione che ci sia qualcosa di vero. Per questo credo di sapere quello che prova».
E allora Francesca gli sorrise. Per la prima volta gli rivolse un sorriso caldo e intenso. E l’istinto del giocatore ebbe il sopravvento. «Le andrebbe di fermarsi a cena? La mia famiglia non è qui e in casa non c’è molto, ma posso mettere insieme qualcosa.»
. . . . .
È inutile dire che il libro è molto bello, e questo paragrafo testimonia le qualità eccelse di Robert James Waller, anche come romanziere. Non è certo un caso che I ponti di Madison County sia diventato, da subito, un successo planetario.
Un’ultima cosa: A fine libro, quando ogni cosa è ormai svelata, c’è un poscritto dell’autore stesso, un suo incontro, questa volta; una sorta di continuità tra inizio e fine del romanzo: anche nel prologo aveva scritto in prima persona.
Personalmente penso che queste poche pagine siano di una bellezza travolgente, il libro è bello, ma queste pagine…
Poscritto:
Il Caprimulgo
di Tacoma
Mentre scrivevo la storia di Robert Kinkaid e Francesca Johnson, mi scoprii sempre più affascinato dal fotografo di cui si sapeva così poco. Poche settimane prima che il libro venisse dato alle stampe, volai a Seattle in cerca di ulteriori informazioni sul suo conto.
Dato che amava la musica ed era lui stesso un artista, pensavo che qualche rappresentante della comunità artistica e musicale di Puget Sound potesse averlo conosciuto. Trovai aiuto nel direttore artistico del Seattle Times. Sebbene non avesse conosciuto personalmente Kinkaid, mi consentì l’accesso alle relative rubriche del giornale nell’arco di tempo compreso tra il 1975 e il 1982, ossia il periodo a cui ero particolarmente interessato.
Esaminando i numeri del 1980, mi imbattei nella foto di un musicista jazz di colore, il sassofonista John «Caprimulgo» Cummings. La foto portava la firma di Robert Kinkaid. Il locale sindacato musicisti mi fornì il recapito di Cummings, informandomi che si era ritirato dalle scene già da qualche anno. L’indirizzo era quello di una strada secondaria nei pressi di un quartiere industriale di Tacoma, non lontano dall’autostrada che scende da Seattle.
Dovetti tornare all’appartamento di Cummings parecchie volte prima di trovarlo a casa. In un primo tempo l’ex sassofonista si mostrò diffidente, ma quando lo ebbi convinto del mio genuino e benevolo interesse nei confronti di Kinkaid, divenne molto più cordiale e aperto. Quella che segue è la trascrizione, solo leggermente ritoccata, della mia intervista a Cummings, che all’epoca del nostro incontro aveva settant’anni. Io non feci altro che accendere il registratore e ascoltarlo parlare di Robert Kinkaid.Intervista con «Caprimulgo» Cummings
Ero stato ingaggiato da Shorty, a Seattle, dove abitavo a quel tempo, e mi serviva una foto in bianco e nero per farmi pubblicità. Il bassista mi disse che su una delle isole viveva un fotografo che ci sapeva fare. Dato che non aveva il telefono, gli mandai una cartolina.
Arrivò. Un tipo strano, abbastanza anziano, in jeans, stivali e bretelle arancioni. Tira fuori certe macchine fotografiche così conciate che si faceva fatica a credere che funzionassero, e io penso: Uh-oh. Mi fa mettere contro una parete dipinta di chiaro con il mio sax e mi dice di suonare. Suono. Per i primi tre minuti lui se ne sta lì a fissarmi, e intendo fissarmi sul serio; aveva gli occhi azzurri più freddi che abbia mai visto.
Dopo un po’ comincia a scattare. Poi mi chiede se conosco Autumn Leaves. Gli dico di sì e attacco il pezzo. Suono per dieci minuti buoni, mentre lui si dà un gran da fare, scattando una foto dopo l’altra. Alla fine dice: “Okay, ho finito. Gliele porto domani”.
Il giorno dopo, quando arriva con le foto, io resto secco. Mi sono fatto fare un sacco di fotografie nella vita, ma quelle erano di gran lunga le migliori. Mi chiese cinquanta dollari, una miseria, mi sembrò. Lui mi ringraziò e prima di andarsene mi chiese dove mi esibivo. “Da Shorty”, risposi io.
Qualche sera dopo, guardo tra il pubblico e lo vedo seduto a un tavolo d’angolo, che ascolta tutto intento. Be’, da quel giorno cominciò a venire una volta alla settimana, sempre il martedì, e beveva sempre birra; senza mai esagerare, però.
A volte, durante una pausa, andavo a scambiare quattro chiacchiere con lui. Era un tipo tranquillo, non parlava molto, ma era gradevole, educato, e tutte le volte mi chiedeva di suonargli Autumn Leaves.
Con il tempo arrivammo a conoscerci un po’ meglio. A me piaceva scendere al porto per guardare il mare e le navi, e saltò fuori che piaceva anche a lui. Così prendemmo a passare interi pomeriggi seduti su una panchina, a parlare. Solo un paio di vecchietti che se la prendono comoda, perché cominciano a sentirsi un po’ inutili, un po’ sorpassati.
Portava sempre il suo cane con sé. Un bel cane. Si chiamava Highway.
Capiva la magia. Anche i musicisti jazz la capiscono. Probabilmente è per questo che andavamo d’accordo. Suoni un brano che in passato hai già suonato mille volte, e di colpo un sacco di idee nuove sgorgano dal tuo strumento, senza che tu te ne renda neppure conto. Lui diceva che era così anche per la fotografia, e per la vita in generale. Un giorno aggiunse: “E quando si fa l’amore con la donna che si ama”.
Stava lavorando a qualcosa in cui cercava di trasformare la musica in immagini. Mi disse: “John, hai presente quel riff che suoni quasi sempre nella quarta battuta di Sophisticated Lady? Be’, credo di essere riuscito a riportarlo su pellicola, l’altra mattina. La luce sull’acqua era quella giusta e c’era un airone azzurro che continuava a volteggiare nel mirino. Vedevo il tuo riff mentre lo ascoltavo e premevo il pulsante di scatto”.
Dedicava tutto il suo tempo a questa faccenda della musica tradotta in immagini. Ne era ossessionato. Non so come facesse a mantenersi.
Non parlava mai molto di se stesso. Sapevo che aveva viaggiato parecchio per lavoro, ma questo fu tutto fino al giorno in cui gli chiesi che cosa fosse la medaglietta che portava al collo. Guardandola da vicino, avevo notato che vi era inciso il nome Francesca. Così gli domandai: “Significa qualcosa di speciale?”
Lui per un po’ non rispose; fissava l’acqua in silenzio. Poi disse: “Quanto tempo hai?”
Be’, era lunedì, la mia serata libera; gli assicurai che ne avevo in abbondanza.
Cominciò a parlare. Era come se qualcuno avesse improvvisamente aperto un rubinetto. Parlò per tutto il pomeriggio e per buona parte della notte. Ebbi l’impressione che si fosse tenuto tutto dentro per un’infinità di tempo.
Non pronunciò mai il cognome della donna, e neppure il luogo in cui tutto era successo. Ma, ragazzi, quel Robert Kinkaid diventava poeta quando parlava di lei. Doveva essere stata qualcosa di realmente speciale, una signora fuori del comune. Cominciò citando un racconto che aveva scritto per lei… qualcosa a proposito della Dimensione Z, ricordo. Rammento di aver pensato che assomigliava a una di quelle improvvisazioni di Ornette Coleman.
E, ragazzi, mentre parlava, piangeva. Grosse lacrime, di quelle che solo un vecchio può versare, di quelle che per metterle in musica ci vuole un sassofono. Fu allora che capii perché mi chiedeva sempre di suonare Autumn Leaves. E incominciai a volergli bene. Chiunque sia capace di provare certe cose per una donna merita di essere amato.
Così cominciai a pensarci… al potere di questa cosa che lui e la donna condividevano. A quelli che lui chiamava gli «antichi istinti». E mi dissi: “Devo riuscire a mettere in musica questo potere, questa storia d’amore, devo far uscire questi antichi istinti dal mio sax”. C’era qualcosa di maledettamente lirico in quello che mi aveva raccontato.
Fu così che scrissi il brano… ci impiegai tre mesi. Volevo che fosse semplice, elegante. E’ facile realizzare le cose complicate. Ma la semplicità è difficile da raggiungere. Ci lavorai ogni giorno finché non sentii di essere sulla strada giusta. Ci detti dentro ancora per un po’ e buttai giù una partitura per pianoforte e basso. E una sera lo suonai.
Lui era tra il pubblico; martedì sera, come al solito. Era una serata fiacca, non più di venti persone in tutto, e nessuno che facesse particolare attenzione all’orchestra.
Se ne stava seduto lì, tranquillo come sempre, ad ascoltare, e a un certo punto io presi il microfono e dissi: “Ora vi suonerò un pezzo che ho scritto per un mio amico. Si intitola Francesca”.
Mentre parlavo lo tenevo d’occhio. Fissava la bottiglia di birra, ma quando dissi Francesca, alzò lentamente lo sguardo, si ravviò i lunghi capelli grigi con entrambe le mani, accese una Camel e mi puntò addosso quei suoi occhi azzurri.
Non ho mai più suonato come quella sera, quando feci piangere il mio sax per tutti gli anni e i chilometri che dividevano quei due. Nella prima aria c’era un breve motivo melodico che in qualche modo scandiva il nome di lei… Fran… ce… sca.
Quando finii, per un istante lui rimase seduto, le spalle ben dritte, poi sorrise annuendo, pagò il conto e se ne andò. Da quella sera, quando c’era lui suonai sempre quella canzone. Per ringraziarmi, fece incorniciare una fotografia che raffigurava un vecchio ponte coperto e me la regalò. E’ appesa lì, sulla parete. Non mi rivelò mai dove l’avesse scattata, ma sotto la sua firma c’è scritto «Roseman Bridge».
Un martedì sera, sette o forse otto anni fa, non venne. E neppure la settimana successiva. Penso, magari è ammalato o qualcosa del genere. Preoccupato, vado al porto, comincio a chiedere in giro. Nessuno ne sa nulla. Alla fine raggiungo in barca l’isola su cui viveva. Stava in un vecchio chalet, una baracca, in effetti, vicino alla riva.
Mentre mi guardo intorno, arriva un vicino e mi chiede che cosa sto facendo lì. Glielo spiego e quello mi dice che il fotografo è morto dieci giorni prima. Ragazzi, se mi fece male. Fa male ancora adesso. Quel tipo mi piaceva un sacco. C’era qualcosa in lui, qualcosa. Avevo la sensazione che sapesse cose di cui il resto di noi non sa niente.
Chiedo al vicino notizie del cane. Non ne sa nulla. Dice che non conosceva neppure Kinkaid. Allora chiamo il canile municipale, e sì, mi dicono, il vecchio Highway è da loro. Vado a prenderlo e lo affido a mio nipote. L’ultima volta che l’ho visto, lui e il ragazzino erano proprio innamorati. Mi ha fatto un gran piacere.
Questo è tutto, direi. Non molto tempo dopo aver saputo della morte di Kinkaid, il braccio sinistro cominciò a darmi delle noie: si intorpidiva ogni volta che suonavo per più di venti minuti di fila. Un problema di vertebre, pare. Così mi sono ritirato.
Ma, ragazzi, sono ossessionato dalla storia che mi raccontò, la storia sua e della donna. E’ per questo che ogni martedì sera tiro fuori il mio sax e suono il pezzo che ho composto per lui. Lo suono qui, tutto solo.
E mentre suono, guardo la fotografia che lui mi regalò. C’è qualcosa in quella foto, non so che cosa sia, ma quando suono la sua canzone non riesco a smettere di guardarla.
Me ne sto lì, verso il crepuscolo, e faccio piangere il mio sax e suono per un uomo che si chiamava Robert Kinkaid e una donna a cui lui dava il nome di Francesca.
I Ponti di Madison County
di Robert James Waller. Edizioni Frasinelli (1992), traduzione di Maria Barbara Piccioli.
Voto: 4/4
Due righe sul film:
Un Clint Eastwood eccezionale, che veste le parti di regista, produttore e attore protagonista, con una strepitosa Meryl Streep. Vincitore del Premio Oscar e del Golden Globe, entrambi nel 1996. Ha incassato 182 milioni di dollari, contro un budget di soli 22 milioni. A mio parere tra i primi tre film di Eastwood, insieme a Mystic River e Million Dollar baby.
Ho letto che durante le riprese del film sarebbe nata una storia d’amore tra Meryl e Clint, non so quanto possa essere vera, ma non importa, ciò che è innegabile è l’intensità e la veridicità che sono riusciti trasmettere nella pellicola, e che arriva intatta a noi spettatori (il film l’ho visto tre volte). Avendo appena finito di leggere il libro vi garantisco che l’analogia è incredibile: penso a Robert Kincaid e mi ritrovo Clint Eastwood, rivedo la dolce Francesca e mi appare Meryl Streep.
I Ponti di Madison County
diretto ed interpretato da Clint Eastwood (1995), con Meryl Streep. Prodotto dallo stesso Eastwood e da Kathleen Kennedy.
Voto: 5/5
Questa volta non concluderò l’articolo con la colonna sonora, non che non l’avessi pensata, l’avevo già scritta!
Ma ho cambiato idea, ho pensato al film, e mi è venuto in mente la scena più toccante e poetica del film, eh sì, Clint in questa scena è stato un grande… e loro due perfetti:
La pioggia e i loro sguardi, occhi, sorrisi, dolore, e quel semaforo, i due furgoni appiccati fermi al rosso, la maniglia che Meryl/Francesca stringe, come a stringere il suo cuore spezzato, come a stringere una possibilità, una vita, un amore…
e Clint/Robert che aspetta lì davanti, il semaforo scatta, è verde, ma lui aspetta…
«Che hai Fran… per piacere mi dici che ti è successo?»
«Soltanto un minuto Richard, un minuto…».
Cliccando QUI, vi consiglio di vederla, o rivederla.


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Grazie!
Ottima recensione.
Nerella
Grazie Nerella, mi fa piacere che le sia piaciuta. Con un film e un libro così belli è più facile trovare le parole, ed è un piacere condividerle.
Buona giornata
Roberto