Nell’articolo del 17 ottobre 2017 – Il fondo del barile di ognuno di noi – vi ho parlato di uno dei tanti difetti dell’uomo, il più subdolo: sfogare continuamente le nostre miserie disprezzando e prendendo in giro il malcapitato di turno. Ma la lista dei nostri difetti è talmente numerosa – alla faccia dell’importanza che noi umani ci diamo – che non faccio fatica a pescarne un secondo, altrettanto fastidioso.
Ma andiamo con ordine.
Vi capita mai di accorgervi che la gente non ascolta, di vedere il vostro interlocutore distratto, per non dire assente.
A me sì, del resto è più facile vedere i difetti degli altri che i nostri.
Anche in questo caso, come in altri articoli, mi farò aiutare da una storiella Zen:
Dialogo commerciale per avere alloggio
Qualunque monaco girovago può fermarsi in un tempio Zen, a patto che sostenga coi preti del posto una discussione sul Buddhismo e ne esca vittorioso. Se invece perde, deve andarsene via.
In un tempio nelle regioni settentrionali del Giappone vivevano due confratelli monaci. Il più anziano era istruito, ma il più giovane era sciocco e aveva un occhio solo.
Arrivò un monaco girovago e chiese alloggio, invitandoli secondo la norma a un dibattito sulla sublime dottrina. Il fratello più anziano, che quel giorno era affaticato dal molto studio, disse al più giovane di sostituirlo. «Vai tu e chiedigli il dialogo muto» lo ammonì.
Così il monaco giovane e il forestiero andarono a sedersi nel tempio.
Poco dopo il viaggiatore venne a cercare il fratello più anziano e gli disse: «Il tuo giovane fratello è un tipo straordinario. Mi ha battuto».
«Riferiscimi il vostro dialogo» disse il più anziano.
«Be’,» spiegò il viaggiatore «per prima cosa io ho alzato un dito, che rappresentava Buddha, l’Illuminato. E lui ha alzato due dita, per dire Buddha e il suo insegnamento. Io ho alzato tre dita per rappresentare Buddha, il suo insegnamento e i suoi seguaci, che vivono la vita armoniosa. Allora lui mi ha scosso il pugno chiuso davanti alla faccia, per mostrarmi che tutti e tre derivano da una sola realizzazione. Sicché ha vinto e io non ho nessun diritto di fermarmi». E detto questo, il girovago se ne andò. «Dov’è quel tale?» domandò il più giovane, correndo dal fratello più anziano.
«Ho saputo che hai vinto il dibattito».
«Io non ho vinto un bel niente. Voglio picchiare quell’individuo».
«Raccontami la vostra discussione» lo pregò il più anziano.
«Accidenti, non appena mi ha visto lui ha alzato un dito, insultandomi con l’allusione che ho un occhio solo. Dal momento che era un forestiero, ho pensato che dovevo essere cortese con lui e ho alzato due dita, congratulandomi che avesse due occhi. Poi quel miserabile villano ha alzato tre dita per dire che tra tutti e due avevamo soltanto tre occhi. Allora ho perso la tramontana e sono balzato in piedi per dargli un pugno, ma lui è scappato via e così è finita».
da 101 Storie Zen
A cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Edizioni Adelphi.
Voto: 5/5
Così come il monaco sciocco ha sempre in mente la sua menomazione e pensa che tutto ruoti sul suo occhio mancante, e il monaco viandante crede che tutto giri intorno alla sua fede, anche noi, in una qualsiasi discussione siamo incapaci di ascoltare.
È questo dunque un altro grande difetto di noi umani.
Non ci interessa la verità, vogliamo solo aver ragione, troppo forte la paura di svelare limiti e difetti.
Del resto fateci caso: difficilmente il vostro interlocutore vi guarda negli occhi, e se sì ha una soglia di attenzione di pochi secondi; e non appena può riparte con un «sì va bene, però…», che ha nella sua contraddizione un’ammissione: “adesso che è di nuovo il mio turno ti dimostro che ho ragione”.
Avete mai fissato degli sconosciuti?
Secondo me non c’è niente di male. Li state semplicemente guardando. Siete curiosi.
Ma non è quello che pensano, nella maggioranza dei casi, gli osservati: se ti va bene ti passano accanto a disagio, se ti va male se ne escono con un «che cazzo vuoi?».
Qualche anno fa andavo a Bologna per il Cersaie. Ero in colonna in autostrada, le tre corsie bloccate. Per far passare il tempo mi sono messo a guardare i passeggeri della macchina accanto: tre uomini e una donna. Lo faccio spesso. Non ricordo più se la ragazza fosse carina, probabilmente sì, dal momento che uno dei tre mi ha domandato: «hai finito di mangiarla con gli occhi?».
A volte sei preso tu di mira, altre volte sei tu che fai la frittata. Fai una battuta e ti rendi conti che il destinatario di quello che è solamente un semplice scherzo se l’è presa di brutto.
Sentite questa.
Ero al ristorante con un gruppo numeroso di amici. Un paio di coppie non le conoscevo. Poi a metà cena uno di questi, un ragazzo, mi guarda con insistenza e se ne esce con la classica domanda:
«Mi sembra di averti già visto».
E io lo guardo in silenzio, per una frazione di secondi volutamente più lunga della norma, e di colpo tutti quanti sono in silenzio, si sono accorti che fisso il ragazzo e aspettano la mia risposta – eh già quando voglio sono capace di creare una buona suspence… -, infine rispondo:
«Sì… anche a me sembra di averti già visto, forse in macchina… a qualche semaforo rosso?».
Beh la risata fu fragorosa, ma degli altri. Lui se la prese di brutto e non mi rivolse più la parola.
Ma era davvero solo una battuta, del resto al semaforo rosso, per distrarmi, osservo davvero la gente, è un po’ come essere al cinema.
Così come in autostrada, se si è in colonna.
E a pensarci adesso, quella volta che mi hanno dato del guardone… magari anche lì era solo una battuta.
Ma quando la fai non è la stessa cosa che subirla, così come ho già detto, perché è più facile vedere i difetti degli altri che i nostri.
E poi spesso coincidono.
Perché fondamentalmente ci assomigliamo.
Queste cose le sai perché siam tutti uguali
e moriamo ogni giorno dei medesimi mali,
perché siam tutti soli ed è nostro destino
tentare goffi voli d’azione o di parola,
volando come vola il tacchino…
[…] perché siam tutti uguali, siamo cattivi e buoni
e abbiam gli stessi mali, siamo vigliacchi e fieri,
saggi, falsi, sinceri… coglioni!
da: Canzone quasi d’amore di Francesco Guccini
Un’ultima cosa.
Il titolo l’ho preso da Osho.
Nel suo Dieci storie zen – lo zen spiegato con lo zen -, edizioni Mediterranee, la stessa storiella che Adelphi ha chiamato Dialogo commerciale per avere alloggio, è stata tradotta in Una risata è la risposta.
Anche la traduzione della storia è un po’ diversa, anche se non cambia il significato.
Con una eccezione importante: la fine.
Nella versione di Osho l’ultima riga è composta di quattro parole. Quattro parole semplici ma potenti che danno senso al titolo:
L’anziano fratello rise.
Questa la spiegazione di Osho:
Il fratello maggiore poté vedere entrambi i punti di vista. Riuscì a vedere che tra di loro non c’era stata comunicazione, l’abisso era ancora lì, nessun ponte. Uno era stato sconfitto, l’altro era vittorioso, ma non si erano mai incontrati, nemmeno per un solo momento.
Egli rise.
Questa risata può diventare una profonda comprensione, una trasformazione radicale. Se questa risata non è per la stupidità del fratello, o per la stupidità del viandante, se questa risata riguarda l’intera situazione: come funziona la testa, come due teste non possono mai incontrarsi, come due menti rimangono sempre separate – non c’è nessun modo perché si incontrino e si fondino l’una nell’altra…
Questa risata può diventare l’illuminazione.
E io non so se queste quattro parole se le sia inventate Osho, e forse non è nemmeno così importante.
Quello che importa è che lì dove sono stanno bene, e che il suo titolo spacca.
Dimenticavo: come colonna sonora dell’articolo ho scelto la canzone di Guccini che ho citato precedentemente.
Canzone quasi d’amore
di Francesco Guccini, uscito per la prima volta nell’album Via Paolo Fabbri 43, pubblicato nel 1976.
Voto: 4/5
Cliccando QUI potete sentirla.


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