È venuto il momento di Murakami Haruki.
È per me una new entry, e non perché sia un pivello al suo esordio: del 1979 il suo primo romanzo. Sono io che l’ho scoperto tardi, ma da subito ha scalato la classifica dei miei preferiti.
Quando si superano i quaranta – e io li ho superati da un pezzo – si ha l’arroganza di credere di aver visto e letto l’indispensabile. Con il rischio di chiudersi verso tutto ciò che è nuovo.
I miei autori preferiti?
Mostri sacri. Nessuno li avrebbe scalzati dalla Top Ten.
Per tutta la vita?
Sì, per tutta la vita. Più ingenuo di così…
E poi come fare a scegliere.
Prendiamo anche solo i classici. Sono centinaia e centinaia. Per un periodo della mia vita ho letto pressoché solo quelli. Li leggo perché penso che ne valga la pena, se sono diventati classici vorrà dire qualcosa.
Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire
La definizione che più di tutte mi ha conquistato, di Italo Calvino.
E la stramaggioranza di quelli che ho letto son proprio belli. Non tutti certo, ma i più pallosi li lascio lì. All’inizio mi dispiaceva, mi sembrava di fare un torto e così li finivo: una fatica! Poi me ne son fatto una ragione. Leggere deve essere un piacere, mica me l’ha ordinato il dottore.
E poi la scelta è talmente ampia e la vita talmente breve che non vale proprio la pena aver rimorsi. E non solo verso i libri che non proseguo, almeno loro un’occasione l’hanno avuta. Ma soprattutto per la miriade di libri pubblicati. Quelli a cui do un’occhiata, e quelli che nemmeno noto.
Sì, è davvero difficile scegliere. Penso sia per questo che ho avuto per gli autori contemporanei, e per un sacco di tempo, un atteggiamento di sfiducia.
N. N
legge di rado libri moderni;
perché, dice, io veggo che gli antichi
a fare un libro mettevano dieci, venti, trent’anni;
e i moderni, un mese o due.
Ma per leggere, tanto tempo ci vuole
a quel libro ch’è opera di trent’anni,
quanto a quello ch’è opera di trenta giorni.
E la vita, da altra parte, è cortissima
alla quantità de’ libri che si trovano.
Onde, ec.
Giacomo Leopardi, Zibaldone, 17 gennaio 1829
Se poi lo dice anche Leopardi, mi sentivo ancora più autorizzato ad ignorare i vivi. E continuavo a leggere classici.
Con un’aggravante che non vi ho ancora detto: quando un libro mi piace lo leggo più volte.
Da manicomio.
Vi piace Massimo Troisi?
A me sì, e tanto. In una scena di un suo film – Le vie del signore sono finite -, parla proprio di lettori e scrittori, e dello sconforto che può venire a noi lettori pensando allo sproposito di libri da leggere.
Io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere
Cliccando QUI potete vedere il video, è molto divertente.
Grande Massimo, far ridere è una delle imprese più difficile. Ma non è solo quello. Troisi è molto di più di un comico. Con quel suo modo di parlare imbarazzato, quasi a volersi scusare, ti conquista da subito. Sembra parlare di niente, ma è solo apparenza. Ogni suo monologo, ogni suo film tocca in realtà i grandi temi della condizione umana: paure, desideri, vergogne. È la mosca bianca del palcoscenico italiano. Ai tanti urlatori professionisti che sempre di più spopolano, lui risponde con quel suo sorriso, timido e malinconico. Parole e non parolacce. Grazia e non volgarità. Sentimenti e non le solite battute sui politici.
Cinema: un’altra mia grande passione, ma nessun vincolo mentale. Vedendo, fin dall’inizio, di tutto, dai classici alle prime visioni.
Del resto l’unico strumento di scelta non dovrebbe essere esclusivamente la qualità del prodotto? La bellezza?
In effetti.
C’è voluto un po’ ma poi ci sono arrivato. Anche per i libri.
Per caso, come succede in questi casi, e a trent’anni suonati.
Mi sono imbattuto in Oceano mare di Alessandro Baricco, ed è stata una rivelazione. Come uscire di casa, dopo un temporale. Una ventata di aria fresca. Aprire gli occhi e vedere il sole, un prato, una nuvola.
E i classici che mi rimangono da leggere?
Fa niente. Ed è così che vado in libreria molto più rilassato, prendo in mano un nuovo libro, magari di un esordiente – più contemporaneo di così – e se decido di comprarlo spero che scatti la scintilla. Ecco tutto.
Perché nessun libro, bello o brutto non importa, potrà mai scalfire il debito di riconoscenza che ho con Cent’anni di solitudine, Siddharta, I fratelli Karamazov, Il giovane Holden, Furore, La coscienza di Zeno – tanto per fare dei nomi. Rimangono perle preziose e mi sento fortunato ad averli letti.
Ma volete sapete una cosa? È proprio bello pensare che il libro della tua vita lo devono ancora scrivere, lo devo ancora leggere.
Che bella la contemporaneità.
A proposito: quando esce l’ultimo libro di Ammaniti?
Ecco, ancora una volta sono andato fuori tema.
Cosa faccio?
Cancello tutto e ricomincio?
Col cavolo. La prossima volta starò più attento. Mi impegno ad essere più sintetico, ma stavolta proseguo.
Eravamo rimasti a Murakami.
Dicembre 2011.
Mia moglie prende dalla biblioteca un libro dal titolo strano: L’uccello che girava le viti del mondo (Einaudi, 2007 [1994-1995] – di un autore giapponese che non conoscevo – ed è stato un colpo di fulmine.
L’uccello che girava le viti del mondo
Mi domando se sia realmente possibile capire perfettamente un’altra persona. Anche quando ci sforziamo di conoscere qualcuno mettendoci tutto il tempo e la buona volontà possibile, in che misura possiamo cogliere la sua vera natura?
Io nell’oscurità pensavo ai fazzoletti di carta celesti, alla carta igienica a disegni, alla carne cucinata coi peperoni. Per tutto quel tempo l’idea che non li potesse sopportare non mi aveva mai sfiorato: Chissà se un giorno sarei stato in grado di conoscerla tutta quella stanza. Oppure sarei invecchiato senza esplorarla fino in fondo, e poi sarei morto. In tal caso che senso poteva mai avere quella vita matrimoniale?
Queste sono le riflessioni che feci quella notte, e anche in seguito continuai a pensarci su in maniera intermittente. Poi capii, anche se molto più tardi, che quella volta avevo proprio toccato il cuore del problema.
Vi presento il mondo di Haruki Murakami.
E da allora non ho più smesso di leggerlo.
Nato a Kyoto nel 1949 è tra gli scrittori più originale della narrativa moderna. Uno stile semplice e sintetico, poetico e magico. Diverso. Una cosa che non ti aspetti. Ha influenze Zen, almeno per me è così, ma non è lo Zen che ti aspetti – del resto quando mai lo Zen lo si può racchiudere in una definizione? Suo nonno era un monaco buddhista, suo padre stesso lo è stato, per breve tempo e nel tempio di famiglia. La sua scrittura ne risente. Le frasi corte e così spesso in bilico tra i due estremi: pace e inquietudine, realtà e sogno, luce e ombre, vita e morte, testimoniano il suo passato. La sua educazione. Cambia poco che Murakami si dichiari non religioso.
Spesso – mentre leggo i suoi libri – mi domando se l’autore sia veramente giapponese, dai tanti riferimenti alla cultura occidentale – letteratura, musica e cinema – che si trovano.
I miei genitori erano professori di letteratura giapponese. Forse tutto nasce dal fatto che per variare ho cominciato a leggere molto presto anche altre letterature – Dostoevskij, Kafka, Tolstoj, Dickens, e così via. Inoltre, ho tradotto in giapponese molti scrittori americani: Scott Fitzgerald, Carver e Chandler. Ma resto uno scrittore giapponese. Le mie radici sono in Giappone».
dall’intervista pubblicata sull’Espresso – I due mondi di Haruki Murakami “Il sesso? E’ la porta simbolica” – di RONALD DÜKER, del 03 Febbraio 2014.
Probabilmente è proprio questa contaminazione a rendere la sua scrittura così originale. Una prosa perfetta per raccontar magie, gatti che parlano, doppie lune. Così ho pensato che ci deve essere dell’altro, che Murakami deve avere un segreto. Tipo che scrive i libri in una lingua diversa – ovviamente mi viene in mente l’inglese -, e poi solo dopo lo ritraduce in giapponese. Così avrebbe un senso. Frasi corte, dialoghi semplici ma intensi. Più che una scrittura sembra un parlato. Successivamente interviene il traduttore, che nelle varie lingue in cui viene pubblicato dà il suo contributo. Un’ulteriore contaminazione.
Vi sembrerà buffo ma io questa cosa – che Murakami scrive in inglese e così via – la immagino da sempre. E ogni volta che leggo un suo libro me ne convinco sempre di più. Arrivando a pensare che sia vera. Di averla davvero letta. A volte mi succede di immaginare le cose. Ma questa volta mi sembra così reale che sono andato su google a ricercarla. Ma non trovo nulla. Fa niente.
Comunque, l’articolo deve andare avanti ed è il momento di Norwegian Wood, il libro di Murakami che preferisco. L’ho appena riletto. Mica potevo affidandomi semplicemente alla memoria.
Bellissimo!
Del 1987 e suo quinto romanzo, fu in patria uno dei più grossi e inattesi eventi letterali del dopoguerra. In una Giappone sempre più tecnologica e industriale stupì tutti quanti scrivendo il più sentimentale e realistico dei suoi libri. Per questo è il mio preferito. Una storia d’amore tra ragazzi adolescenti. Ci sono tutti gli ingredienti per immedesimarsi: i banchi di scuola, il desiderio e la paura di vivere e di diventare adulti, i continui riferimenti a libri e dischi che fanno parte dell’immaginario collettivo.
Toru, il protagonista, ricorda diciott’anni dopo il suo primo amore per Naoko e l’incontro con Midori. Le due ragazze sono agli antipodi. Ancora una volta due mondi opposti. Due estremi che attireranno Toru con una forza irresistibile.
Naoko è tormentata, spenta, chiusa, buia, quanto Midori è serena, vitale, aperta, solare.
Un romanzo che appassiona e coinvolge come pochi.
Rilessi la lettera un centinaio di volte. E ogni volta venivo preso da una sconfinata tristezza, la stessa che provavo quando Naoko mi fissava negli occhi. Era una sensazione desolata che non potevo allontanare da me in nessun modo, di cui non potevo in nessun modo liberarmi. Come il vento che passa sfiorando la pelle, non aveva contorni né peso. Troppo impalpabile anche per avvolgermi dentro. I paesaggi sfilavano lenti davanti a me, e le parole degli altri non riuscivano a raggiungermi.
Quando arrivava il sabato sera mi sedevo come sempre su una sedia nell’atrio. Non che sperassi nell’arrivo di una telefonata, ma non avevo niente da fare. Accendevo la televisione, mettendo sempre il programma di baseball e facevo finta di starlo a guardare. Poi cominciavo a dividere lo spazio vuoto che si stendeva tra me e la televisione in due parti, e lo spazio che ne risultava di nuovo in due. Ripetevo la stessa operazioni infinite volte, finché ottenevo uno spazio talmente piccolo da stare sul palmo della mia mano.
Verso le dieci spegnevo la Tv, tornavo nella mia stanza e mi addormentavo.
. . . . .
Rispetto a quanto l’avevo vista l’ultima volta, Midori aveva gli occhi un po’ stanchi. Giocava con il braccialetto che aveva al polso sinistro, e ogni tanto si stropicciava con le punte dei mignoli gli angoli degli occhi.
– Hai sonno? – le chiesi.
– Un po’. Non dormo abbastanza, sono occupata con mille cose. Ma sto bene, non farci caso, – disse. – A proposito, scusa per l’altra volta. È subentrata una cosa importante che non potevo evitare. Siccome è stato quella mattina all’improvviso, non avevo modo di avvisarti. Ho pensato di telefonarti al ristorante ma non mi ricordavo il nome, e non so il numero di casa tua. Hai aspettato molto?
– Non è stato grave. Se c’è una cosa che non mi manca è il tempo.
– Davvero ne hai tanto?
– Tanto che mi piacerebbe dartene un po’, e farti dormire lì dentro.
Norwegian Wood
di Murakami Haruki. Edizioni Einaudi (2006). Traduzione di Giorgio Amitrano. Edizione originale Noruwei no mori (1987). Pubblicato per la prima volta in Italia nel 1993 da Feltrinelli, con il titolo di Tokyo Blues.
Voto: 5/5
Come colonna sonora di articolo e libro scelgo ovviamente Norwegian Wodd. Leggete il libro, se non lo avete letto, e capirete.
Norwegian Wood
dei Beatles, scritta da John Lennon, inserita nell’album Rubber Soul, del 1965.
Voto: 5/5
La canzone narra in modo ironico e surreale di una serata a casa di una ragazza da parte del protagonista della canzone. Grande John, tale e quale ad Haruki, o dovrei dire grande Haruki, tale quale a John.
Cliccando QUI, la potete sentire.
Magari leggendo il testo in italiano:
una volta avevo una ragazza
o dovrei dire
lei una volta aveva me
lei mi ha mostrato la sua stanza
non è male vero?
il legno norvegese
lei mi chiese di restare e mi disse di sedermi dove volevo.
quindi mi sono guardato intorno e ho notato che non c’era una sedia
mi sono seduto su un tappeto
aspettando il mio momento
bevendo il suo vino
parlammo fino alle due
e allora lei ha detto
“è tempo di andare a letto”
mi disse che lavorava di mattina e ha iniziato a ridere,
le ho detto che io non lo facevo, e sgattaiolai a dormire in bagno
e quando mi sono svegliato
io ero da solo
questo uccello era volato
così accesi un fuoco
non è male vero?
il legno norvegese


Ultimi post di Roberto Alboresi (vedi tutti)
- Il Cortile dell’Eden - 4 Settembre 2022
- La Bala di Pierangelo Bertoli - 22 Luglio 2022
- Radici di Francesco Guccini - 3 Luglio 2022