Immaginatevi un campionato parallelo alla Bundesliga tedesca. Ma scordatevi la palla, e le righe bianche a delimitare le linee di porta, di area e laterali. Così come le le curve o le gradinate, quelle vanno bene per gli ultras.
Per questi incontri è meglio un bosco, un campo appartato, una strada. Lontano dal clamore dei media e dalla polizia.
Sono hooligan che combattono altri hooligan.
In palio non c’è una partita di calcio e i classici tre punti, ma l’onore, la supremazia sull’avversario. Più che vincerlo, massacrarlo. Rigorosamente a mani nude. Senza armi. Ci sarebbe poi il tacito accordo di non infierire su chi è disteso per terra. Ma è un volerselo raccontare, una bugia. E si sa, le bugie han le gambe corte. Troppo forte la rabbia per una vita che li relega nell’anonimato, la tensione del match, la voglia di prevalere. E poi contro ogni squadra avversaria c’è sempre un conto aperto. Una battaglia persa che grida vendetta. Perché nessun’altro ha così tanto rispetto del passato e delle tradizioni come il tifoso di calcio. E un così forte senso di appartenenza. In questo caso, semplice tifoso, ultras o hooligan non fa differenza.
Caccio il paradenti in bocca. Mordo. Oramai il nervosismo è solo una sensazione in secondo piano. Ci disponiamo su tre file per la larghezza dello stradino. L’adrenalina mi pompa in corpo. La testa diventa leggera.
La truppa parte battendo i piedi. Axel e Tomek un passo avanti agli altri. Ulf alla mia destra, Kai a sinistra. Ha un cazzo di ghigno che gli arriva fin sopra i le orecchie, e mi contagia. Torno a guardare avanti, il muro di teste rasate e magliette bianche che ci viene incontro. Si fanno più veloci, gridano «Huren Hannoi!». Hannover troie. Qualcuno alza i pugni.
Acceleriamo anche noi. Attenti a calcare bene i piedi per terra. Bisogna averli saldi per l’impatto. Altrimenti hai già perso. Loro si mettono a correre. Noi pure. Vietato inciampare, adesso. Vietato pestare i talloni ad Axel. Ci siamo. Sento nella schiena delle mani che mi spingono avanti. Come se ce ne fosse bisogno. Ora!
Un ultimo urlo. Il bosco ammutolisce. Poi lo schianto dei corpi. Partono pugni e calci.
È Heiko il protagonista del romanzo, che parla in prima persona e senza peli sulla lingua. Come tanti altri ha un passato da buttare. Un padre alcolizzato, una madre che l’ha abbandonato da piccolo, una ragazza drogata che ama e che lo ha lasciato. Con le gesta dello zio Axel davanti agli occhi è fin troppo facile diventare anche lui un hooligan. E quel mondo diventa la sua ragione di vita. La famiglia che non ha avuto. Una conferma di successo. I match sono la ciliegina sulla torta. Una botta di adrenalina. L’unico modo per liberare la sua rabbia repressa.
Vincere per onorare la maglia della mitica Hannover 96, difendere e proteggere gli amici. È questa la sua missione.
Gli si chiudono le vene e… neebia! Un pitbull da combattimento assetato di sangue che si butta nella mischia, sull’avversario di turno.
Che poi per la sua rabbia generazionale non c’è vittoria risolutrice, per la sua arsura non c’è boccale di birra che possa dissetarlo.
Delinquenti emarginati che vivono per picchiarsi a vicenda. La feccia dell’umanità, da incarcerare e buttare la chiave. Penserete voi.
Se non fosse che questo romanzo di esordio di Philipp Winkler compie un piccolo miracolo.
Ok. La scrittura è potente e cruda, tagliente come una lama d’acciaio; le vicende e i dialoghi sono perfettamente credibili, ed è scritto molto bene e blablabla.
Ma non è questo.
Conoscere per comprendere.
È questa l’intuizione di Winkler.
E pagina dopo pagina, scontro dopo scontro, e con continui flashback che rivelano il passato del protagonista, cadiamo nella trappola dell’autore che nemmeno ce ne accorgiamo.
Perché è più facile prendere le distanze e indignarsi con dei perfetti sconosciuti. Se ci fermiamo semplicemente al loro lato oscuro. Come nei film western, è tutto così semplice, scontato. Il cattivo di turno è sempre una carogna e il buono è sempre un santo. Cambia tutto se ci avviciniamo. Se ci rendono partecipi del loro dolore, dei i loro sogni, desideri, delle loro speranze, paure. La frittata è fatta. Da sconosciuti diventano conoscenti e poi amici. E piccoli gesti inaspettati di tenerezza e compassione, che in altre situazioni avremmo dribblato, li salvano. Hooligan umani. Quindi. Con un cuore e una propria etica, e che disprezzano i naziskin, tra l’altro.
Non li giustifico, non esageriamo. Sarebbe troppo. Smetto semplicemente di giudicarli, questo sì.
Perché in fondo ognuno ha le sue ragioni.
Leggete questa storiella.
Un uomo aveva paura della sua ombra, orrore delle sue impronte.
Le fuggiva scappando.
Ma più alzava i piedi, più le impronte erano rumorose, per quanto scappava in fretta, l’ombra non lo lasciava.
Allora cominciò a correre sempre più forte, senza mai riposare.
Fino a che non cadde morto.
Non so di chi sia. Se ha un padrone o semplicemente me la sono inventata. Gira e rigira nella mia mente da sempre.
Ci insegna ad accettarci. È questo il messaggio che ci trovo. Nessuno è perfetto. Un santo. Dentro di noi convive anche un lato oscuro. Il nostro principio negativo – nero, freddo, luna, acqua, notte, demoni . Lo yin per l’antica filosofia cinese. Sono le nostre zone d’ombra. Non è possibile eliminarle completamente. Non serve cacciarle. Come l’ombra della storiella, ci accompagnano per sempre. Ma la vita è totalità, e nulla viene tralasciato. E accanto a questa oscurità siamo dotati di una luminosità che trabocca e prevale. È il nostro principio positivo – bianco, caldo, sole, giorno, dèi. Lo yang.
Nessuna cosa può essere completamente yin o completamente yang, oppure – per dirla nella nostra cultura occidentale – nel male è sempre presente un po’ di bene e nel bene è presente un po’ di male.
Mio figlio ha cinque anni e cinque convinzioni
facendo bene i conti ne ha cinque più di me
se il nero fosse bianco se il bianco fosse nero
sarei poco sicuro di quello che ora so
io che mi fido solo di chi mi ha dato il cuore
quando non ce l’avevo mio e
sono ancora qui qui con le mie domande
e sono ancora qui cosa farò da grande
non seguo l’uomo bianco che parla delle donne
non lo capisco quando parla di Belzebù
nell’uomo più feroce nel serpe più cattivo
se Cristo fosse vivo il lo vedrei anche lì
da Cosa farò da grande di Gino Paoli
. . . . .
Così non poteva più andare avanti. Per quanto desiderassi che tra noi funzionasse, mi era altrettanto chiaro che io non sarei mai riuscito a cambiare me stesso, e che lei non voleva cambiare di una virgola. Niente domande. Questo ce l’eravamo detti subito, all’inizio del nostro rapporto. Che poi per qualcuno nemmeno sarebbe un vero rapporto, ci giurerei, ma tant’è. A me andava bene anche così. Io e gli altri stavamo per iniziare alla grande il terzo tempo, come si dice, e non avevo la minima voglia di farmelo rovinare. Tantomeno da una donna. Anche se Yvonne non è una donna qualunque.
All’inizio mi sembrava tutto perfetto. Anche lei aveva bisogno di un bel po’ di spazio per conto suo. Non avrei mai creduto di poter incontrare un giorno qualcuno così compatibile con il mio stile di vita. Invece poi è andato tutto storto, ma per ragioni che mai avrei potuto immaginare. Fanculo, cazzo. Mi viene quasi da ridere se penso che a un certo punto credevo che se la facesse con un altro, mentre stava con me. Invece si faceva e basta… era questa la verità, cazzo.
. . . . .
Il pastore ha tenuto un discorso standard di cui mi sono lamentato a mezza voce perché non c’entrava con Joel, ma proprio per niente, e intanto la birra mi era salita alla testa. Tutt’a un tratto, alcuni uomini mai visti prima, con la faccia seria, sono arrivati per scortarmi fuori. C’è stato un piccolissimo scazzo che in birreria non avrebbe provocato nemmeno un’alzata di spalle, ma in chiesa ha subito sollevato un cazzo di apriticielo.
. . . . .
Appoggiato al muro c’è un tizio con un barbone grigio e un paio di baffi che hanno preso il tipico colore giallo del tabacco. Indossa un maglione sporco che praticamente grida «anni Novanta». E sopra un gilet di jeans così consumato che pare grigio. Negli anni il sudore ha disegnato una specie di batik sul berretto da baseball blu che tiene in bilico sulla zazzera spettinata. Sul berretto c’è scritto MODERN DRUNKARD – EST. 1986. Gli vado vicino e lui mi guarda stanco. Sotto gli occhi ha certe borse che sembrano stracci.
«Ehi, capo. Avanza mica del resto?» mi fa.
Tiro fuori il portafoglio, rispondo «sicuro» e gli do una moneta da due euro.
Lui la tiene sollevata per un attimo, poi se la infila nel taschino del gilet e dice: «La ditta ringrazia» .
Mi siedo lì accanto, gli offro una sigaretta senza dire niente e lui in segno di riconoscenza solleva un momento in alto pure quella. Gli passo l’accendino, che poco dopo mi restituisce. Mi porge la mano. Gliela stringo. Ha le dita ruvide e screpolate come la corteccia di una quercia. I polpastrelli si sono lasciati alle spalle da un pezzo il giallo del tabacco e hanno serenamente abbracciato il colore del piscio mattutino.
«Heiko» mi presento.
«Pit,» replica lui «ma gli amici mi chiamano Osaka-Pit».
Fumiamo in silenzio per un po’. Poi ne fumiamo altre due.
A un certo punto dico: «Mettiamo che voglio offrirtene una alla spina. Dove potremmo andare?»
Si gratta con le dita il mento invisibile. Riflette come se gli avessi chiesto il senso della vita.
«Non c’è molto. Ti porterei di sicuro allo Schublers. È qui dietro l’angolo».
Mi alzo, mi do qualche pacca sul culo e dico: «Andiamo, allora».
. . . . .
Gli prendo la fronte e il mento tra le mani, giro la faccia verso di me. Usando tutta la cautela che mi riesce, con le dita tremanti, gli schiudo le palpebre. Sono intrise di sangue anche quelle, e gonfie, perciò le lascio subito. Balzo in piedi e faccio un salto al di sopra di Kai e Jojo. Corro su per i gradini. Li prendo due alla volta. Passa un tram. I volti illuminati all’interno mi fissano sfuggenti. Poco più in là, il gruppetto con le casse di birra sta ancora urlando i suoi stupidi cori di giubilo. In giro non c’è nessun altro. Nessuno a cui saltare addosso. Nessuno a cui mettere le mani in faccia. Nessuno con una fila di denti su cui spellarmi le nocche, continuando a colpirlo fino a staccargli le radici delle gengive. Nessuno che possa continuare a picchiare fino a farlo strozzare con i suoi stessi denti. Solo la pioggia che mi batte sulle spalle e sul cranio e mi caccia la furia dentro ogni singola fibra del corpo.
. . . . .
Il capolavoro di Winkler – eh già si chiama come l’interprete del mitico Fonzie di Happy Days – è avere reso umano il mondo disumano degli Hooligan.
Hool
di Philipp Winkler. Edizioni 66thand2nd 2018 [2016]. Traduzione dal tedesco di Riccardo Cravero
VOTO: 4/5
Come colonna sonora di libro e articolo ho scelto Zu Asche zu Staub di Severija Janušauskaité. Canzone che ha fatto da sfondo alla scena finale del primo episodio di Babylon Berlin. La serie televisiva tedesca che ha spopolato anche in Italia.
Cliccando QUI potete sentirla
Immagini e suoni che ti catturano, potenti e ipnotiche, ambientate nel leggendario Moka Efti, il ristorante e locale notturno, teatro di una sfrenata vita notturna. In una Berlino depravata e sull’orlo dell’abisso degli anni ’20.
Canzone e immagini perfetta anche per gli scontri tribali di questi ragazzacci.


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