Sándor Márai: di nuovo?
Eh già. E mi viene da canticchiare una canzone di Lucio Battisti. È un piacere ma anche un disturbo. Perché qualsiasi cosa che scrivo viene scalzata dalla potenza di queste poche parole, che continuano imperterrite nella mia testa.
Ancora tu non mi sorprende lo sai, ancora tu ma non dovevamo vederci più?…
Non se ne vanno. Rumorose e fastidiose come certe campane. Non ho nulla contro la chiesa e nemmeno contro le campane, tutt’altro: è un suono che mi ricorda l’infanzia. Ma si dà il caso che abito proprio di fronte ad una chiesa, e vi assicuro che è il lasso di tempo che fa la differenza:
Trenta secondi di rintocchi: un piacere.
Tre minuti: un disturbo.
Dieci minuti – succede, fidatevi! -: una rottura di balle.
Tale e quale questa canzone.
È bellissima! Ma è mezzora che mi rimbomba in testa. E in questo momento sto cercando di scrivere un articolo.
Certo che sembra scritta proprio per questo libro.
Sei ancora tu purtroppo l’unica
ancora tu l’incorreggibile
ma lasciarti non e’ possibile
no, lasciarti non e’ possibile…
disperazione e gioia mia
sarò ancora tuo
sperando che non sia follia
ma sia quel che sia…
abbracciami amore mio
abbracciami amor mio
che adesso lo voglio anch’io…
E allora, molto meglio assecondarla, e in questa già strana recensione parto dalla fine. Dalla colonna sonora che sempre associo all’articolo, più ancora che al libro.
Ancora tu
di Lucio Battisti e Mogol. Pubblicato per la prima volta nel 1976, nel suo diciottesimo singolo – Ancora tu/Dove arriva quel cespuglio – dalla casa discografica Numero Uno.
Voto: 5/5
Cliccando QUI, potete ascoltarla.
Ancora Sándor Márai, dunque.
Ad essere sincero non lo avrei mai detto. Perché dopo aver letto e recensito quello che viene considerato il suo capolavoro – Le Braci -, ero convinto di aver lasciato Sándor a una ventina di giorni fa.
E ce l’ho messa tutta per voltar pagina: facendo, guardando e leggendo cose diverse.
Ma, niente. Non è servito a nulla.
Non so voi ma io, quando finisco un libro che mi ha così tanto toccato, provo sentimenti contrastanti. Sono felice di averlo letto e riconoscente e mi sento arricchito e blablabla. E una parte di me non vorrebbe lasciarlo andare, perché nello stesso istante in cui leggo l’ultima riga e chiudo la pagina sento un vuoto. Provo nostalgia. La stessa nostalgia che mi prendeva da bambino, ogni volta che andavo in colonia. Certo, mica mi metto a gnolare come allora: una cosa è un libro, un’altra è la mamma e il papà. Ma il senso di perdita è lo stesso, se capite cosa intendo. È per questo che, pur avendolo finito, avevo tenuto Le Braci accanto a me, sul comodino del letto.
Ma la natura, o Dio se preferite, ci ha fornito tutti gli strumenti per superare delusioni, avversità e dispiaceri, ben più forti della malinconia di un buon libro. Ed è per questo che, ogni volta, non vedo l’ora di leggere altre cose, magari completamente diverse. Non è un caso che dopo Le Braci abbia letto: Nessuno come noi di Luca Bianchini (3/5), molto più leggero, e La donna è un’isola di Audur Ava Olafsdottir (3,5/5).
Poi, una settima fa, ho comprato Vincoli di Kent Haruf, che si è ritrovato subito in pole position sul comodino e pronto per essere letto. Avrei dovuto metterlo semplicemente in cima alla pila e tutto sarebbe andato liscio, non vedovo l’ora di leggerlo.
Le pulizie del comodino. Ecco cosa mi ha fregato!
Devo dire che mettere a posto un libro è un piacere, una liturgia!
Che bello riprenderlo in mano, sfogliare le pagine per togliere gli eventuali segnalibri messi per le frasi più rappresentative e poi sistemarlo nella libreria. Fa niente che per colpa di un solo libro, a volte, devo cambiare l’intera disposizione. Non questa volta. Per Nessuno come noi e La donna è un’isola, ho semplicemente continuato una seconda fila già iniziata, e tutto è andato come doveva. Anche per Le Braci, tutto stava procedendo senza inghippi: ho tutta una fila di libri Adelphi, pronta ad accogliere il successivo. Nel caso abbia più libri dello stesso autore li accoppio, come nel caso di Simenon, ad esempio.
Non di Sándor Márai, pensavo.
Invece. Isolato e dimenticato:
La recita di Bolzano.
Che bella sorpresa e che gioia.
È questo che provano i veri credenti quando vengono toccati da Dio? La stessa emozione e riconoscenza?
Ed è inutile dirvi, che una volta preso in mano tutto è andato come doveva essere.
Kent Haruf dovrà attendere.
Dal risvolto della copertina.
«Un gentiluomo di Venezia!»: così si presenta alla Locanda del Cervo, con gli abiti a brandelli e macchiati di sangue, non avendo con sé altro bagaglio che il suo pugnale e la sua tracotanza, quel famigerato avventuriero in cui i lettori riconosceranno senza esitazione Giacomo Casanova. Ma perché, ora che dopo la rocambolesca fuga dai Piombi potrebbe riprendere la sua esistenza libertina in giro per le corti d’Europa, dove i potenti sono pronti ad aprirgli le porte dei loro palazzi e le donne più belle ad accoglierlo nelle loro alcove, perché proprio ora Giacomo si trattiene così a lungo a Bolzano, in questa città tanto «seria e virtuosa», «ordinata e piena di buon senso», e quindi a lui «maledettamente estranea»? Perché ha un appuntamento con il destino, ci suggerisce Márai. Perché lui, che appartiene a quella razza di uomini «che cerca di placare la propria sete bevendo indifferentemente da un truogolo o da un calice di cristallo», sta per incontrare colei che è l’Unica: l’unica donna che abbia amato, l’unica capace, forse, di dargli quella pienezza di vita che solo l’amore in quanto dono assoluto di sé può dare. Per lei, perché guarisca da lui, il vecchio commediante accetterà il più bizzarro, e il più difficile, degli ingaggi: rappresentare, in una notte sola, tutti i furori e tutti i disinganni della passione. Ma nel corso dell’impeccabile messinscena accadrà qualcosa di totalmente imprevisto – anche se poi nessuno meglio di Giacomo sa che «l’Unica rimane tale soltanto finché è ricoperta dai veli misteriosi e dai drappi segreti del desiderio e della nostalgia»…
Tutto giocato sui registri del melodramma e dell’opera buffa, La recita di Bolzano, apparso a Budapest nel 1940, costituisce, accanto alle Braci (1942) e all’Eredità di Eszter (1939), la terza, magistrale variazione romanzesca del grande scrittore ungherese sulla passione amorosa.
Cosa ne pensate?
Io, che non è un libro semplice. Tutt’altro genere da Nessuno come noi di Luca Bianchini, questo è poco ma è sicuro. Per questo devo averlo messo direttamente in libreria senza leggerlo, la prima volta. Probabilmente mi ero spaventato. Perché come con Le Braci, non ha proprio una prosa semplice; bisogna impegnarsi e concentrarsi per leggerlo. Non è come bere un bicchiere d’acqua.
È facile spaventarsi con queste tipologie di romanzi. Impegnati si dice, e con pagine che a volte proprio non scorrono, che capita di doverle rileggere se non vuoi perdere il filo.
Sì, non è come vedere un film, facendo magari più cose contemporaneamente.
A proposito di film: Avete visto A Beautiful Mind?
È uno dei miei film preferiti, o almeno del nuovo millennio.
C’è una scena – tra John Nash (Russell Crowe) e il suo amico/rivale di sempre – che si ripete più o meno nella stessa maniera ma in due tempi temporali diversi: la prima volta, i due protagonisti, sono due giovani studenti dell’università, la seconda due vecchi professori. È una specie di gioco matematico in cui Nash viene sfidato. Ci sono dei sassolini bianchi contrapposti ai neri da sistemare in fila su una scacchiera. Non so come si chiama. Non è importante.
È più importante darvi un piccolo aiuto. Per chi non avesse visto il film e non conoscesse la trama, aiuterà a capirne meglio il senso.
Dunque: il protagonista è John Nash, uno studente di matematica completamente fuori dal comune e dagli schemi. La prima stranezza? Non va mai a lezione. Troppo impegnato a trovare un’idea davvero originale.
E poi c’è il suo alter ego, uno studente modello che ha già pubblicato lavori promettenti.
La scena si svolge nel cortile dell’università.
L’alter ego è insieme ad altri ragazzi e ha appena vinto una partita del gioco già citato, quando passa John Nash.
Questo, più o meno, il dialogo tra i ragazzi:
«Perché non vieni mai a lezione?» domanda l’alter ego.
«Le lezioni ottundono la mente e distruggono il potenziale della creatività vera», la risposta di Nash.
«In altre parole non hai il fegato di confrontarti?» incalza l’alter ego, indicandogli la scacchiera:
«Spaventato?».
«Terrorizzato, mortificato, pietrificato, disorientato. Da te!», risponde Nash.
Ecco, è questo lo stato d’animo che ho quando mi avvicino ai mostri sacri della letteratura mondiale: spaventato, terrorizzato, pietrificato, disorientato.
Ma poi se mi butto, se non mollo alla prima difficoltà; frasi, paragrafi e se sono fortunato interi capitoli di una bellezza inattesa, elevano la piatta quotidianità.
Curiosa e originale la trama del libro. Iniziare La recita di Bolzano con un vero fatto di cronaca: l’evasione di Giacomo Girolamo Casanova (Venezia, 1725 – Duchov, giugno 1798), dai Piombi di Venezia – era stato arrestato per libertinaggio e spregio della religione -; per poi riscrivere la sua breve permanenza a Bolzano. Inventandosi di sana pianta questo passionale triangolo amoroso.
Se per Le Braci il senso ultimo dell’esistenza umana è che viviamo di desiderio, in questo romanzo è l’amore a prevale. È per Francesca – L’UNICA donna che ha veramente amato – che Giacomo decide di rimanere a Bolzano più del dovuto. Per lei, qualche anno prima, aveva sfidato in un duello il Conte di Parma – attuale marito della donna -, ferendosi gravemente.
E sarà lo stesso Conte a fare a Giacomo una proposta indecente: una notte da passare con la contessa. Purché compia il suo più grande capolavoro. Così potente che Francesca possa guarire da Giacomo: come si guarisce da una malattia.
Cornificato e ridicolizzato dal suo rivale di sempre?
Fa niente. È ancora poco.
E lo coprirà di denaro, di oro, lettere di credito, le porte aperte in ogni dove, la polizia di ogni città ai suoi piedi; in cambio della guarigione di Francesca. Perché ha capito che aver sfidato Giacomo a duello è stato un errore. Ha capito che da quel momento, tra Giacomo e Francesca, tutto è rimasto in sospeso, e niente al mondo è così potente e duraturo di un amore non vissuto.
«… Comincio veramente a credere che esista una forza, un’unica forza, capace di prevalere su tutte le leggi, anche su quelle che governano il tempo e la gravità. Questa forza è l’amore. Non è la passione – scusami, Giacomo, se tento di correggere il principio fondamentale della tua vita e le grandi esperienze che hai acquisito. Non è la passione, cacciatore, scrittore e scienziato infelice, tu che di sera ti trascini nel letto la preda calda e fumante, madida per lo spavento e l’emozione! Qui oppure altrove, in un posto qualsiasi, non è la fame che si acquatta digrignando i denti e spia la sua preda, dovunque il sogno e il desiderio, la speranza e la solitudine attendano fantasticando il loro liberatore, non è la destrezza manuale del giocatore d’azzardo e non sono i sotterfugi della scienza militare, che arriva sotto la finestra della virtù addormentata strisciando lungo scalette di corda, armata di parole temerarie , non è la curiosità, frutto della tristezza e di una solitudine spaventosa, a spingerci all’azione. Sto parlando dell’amore, Giacomo, che prima o poi giunge a tentare tutti nella vita, persino una belva triste e sanguinaria come te – non è un caso che anni fa sei venuto a Pistoia, non è un caso che sei fuggito da lì; tu non sei del tutto colpevole né del tutto innocente, perché una volta l’amore ha tentato anche te. Allora ti scacciai con la punta della mia spada – che follia! Avresti fatto bene a esclamare: Vecchio pazzo! Vecchio rimbecillito e innamorato! Credi che esistano pugnali veneziani temprati nel ghiaccio e nel fuoco o lame fuse e forgiate a Damasco capaci di trafiggere l’amore sino a distruggerlo?… […] «Tu e la contessa, figliolo, siete stati toccati dall’amore».
[…] «Trasforma dunque un’avventura in un’opera d’arte… Tutti gli accessori sono a tua disposizione: la notte e il mistero, la maschera e il giuramento, le belle parole, i sospiri, un biglietto, un messaggio segreto, quindi la fuga nella tormenta di neve, il tenero rapimento, l’istante supremo in cui la preda palpita fiduciosa fra le tue braccia e lancia un grido, e poi il lento declino e la fine, il giuramento “soltanto te” e “per sempre”, mentre già stai spiando, con la coda dell’occhio, i primi chiarori dell’alba dietro le finestre e non vedi l’ora di tagliare la corda, secondo le regole del gioco, come fa uno che ha eseguito a dovere il suo compito e rimane solo, pronto ad affrontare nuovi impegni e a calcare nuovi palcoscenici. […] La vita è un incidente. Io non voglio che in questo incidente la contessa di Parma si rompa l’osso del collo. Ho ancora bisogno di lei. Che torni da me, nella sua casa, all’alba, non strisciando lungo i muri, ma a testa alta nella luce del mattino, anche se dovesse farlo sotto gli occhi di tutta Bolzano – capisci? Che torni a casa, ma guarita. Fatti conoscere da lei, Giacomo, affinché si renda conto che per lei non esiste una vita diversa da quella che le ha affidato il destino, che tu sei l’avventura e che per lei non esiste nessuna possibilità di vivere insieme a te, perché tu sei la notte, la burrasca e la peste che sorvolano i paesaggi della vita, ma poi arriva il mattino, sorge il sole e la gente disinfetta le case, passa la calce sui muri e strofina i pavimenti. Ecco perché ti ho detto di creare un capolavoro! Voglio che nel giro di poche ore tu sveli alla contessa il segreto della tua persona, e voglio che entro domattina questo segreto diventi solo un ricordo che non molesta e non fa soffrire».
Non c’è nessun bisogno che vi sveli il finale.
È evidente fin dalla prima pagina.
Perché Giacomo Girolamo Casanova sa benissimo che:
«l’Unica rimane tale soltanto finché è ricoperta dai veli misteriosi e dai drappi segreti del desiderio e della nostalgia»…
E tutti quanti noi conosciamo la natura di Casanova, e il suo destino:
Donare istanti di felicità ad ogni donna passata per la sua strada.
Io dedico questa canzone
ad ogni donna pensata
come amore
in un attimo di libertà:
a quella conosciuta appena
non c’era tempo e valeva la pena
di perderci un secolo in più.
A quella quasi da immaginare
tanto di fretta l’hai vista passare
dal balcone a un segreto più in là
e ti piace ricordarne il sorriso
che non ti ha fatto e che tu le hai deciso
in un vuoto di felicità.
Alla compagna di viaggio
i suoi occhi il più bel paesaggio
fan sembrare più corto il cammino
e magari sei l’unico a capirla
e la fai scendere senza seguirla
senza averle sfiorato la mano.
A quelle che sono già prese
e che vivendo delle ore deluse
con un uomo ormai troppo cambiato
ti hanno lasciato, inutile pazzia,
vedere il fondo della malinconia
di un avvenire disperato.
Immagini care per qualche istante
sarete presto una folla distante
scavalcate da un ricordo più vicino
per poco che la felicità ritorni
è molto raro che ci si ricordi
degli episodi del cammino.
Ma se la vita smette di aiutarti
è più difficile dimenticarti
di quelle felicità intraviste
dei baci che non si è osato dare
delle occasioni lasciate ad aspettare
degli occhi mai più rivisti.
Allora nei momenti di solitudine
quando il rimpianto diventa abitudine,
una maniera di viversi insieme,
si piangono le labbra assenti
di tutte le belli passanti
che non siamo riusciti a trattenere (Le passanti di Fabrizio De André)
E lo so che ho già scelto la colonna sonora, ad inizio articolo.
Diciamo allora che questa è la canzone dei titoli di coda.
Cliccando QUI, potete sentirla.
Le passanti
di Fabrizio De André. Pubblicato per la prima volta nell’album Canzoni, del 1974.
Voto: 5/5
La recita di Bolzano di Sándor Márai
Edizioni Biblioteca Adelphi 388, 2000 [1940]. Traduzione di Marinella D’Alessandro.
Voto: 5/5


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