Salvare le ossa di Jesmyn Ward

È innanzitutto una cosa che non ti aspetti, e ti viene voglia di mollarlo, nelle primissime pagine, dalla fatica che fai a seguirlo. Eppure continui, indispettito ma continui, le pagine che si susseguono da disordinate cominciano ad avere un senso, la scrittura si fa più comprensibile, la storia più appassionante. Ma capisci di essere arrivato nel punto di non ritorno solamente quando i personaggi te li senti addosso. Buoni o cattivi, giusti o stronzi non importa; come un pugno nello stomaco ti hanno colpito e affondato, da non veder l’ora – quando sei costretto a fare altro – di riaprire il libro e continuare la storia, scoprire tutti i dettagli.

Mi ha ricordato Al Dio sconosciuto di John Steinbeck, la stessa impotenza e piccolezza dell’uomo a cospetto della natura, lo stesso rispetto e amore:

«È terra mia» disse semplicemente, e i suoi occhi brillarono di lacrime e il cervello gli si empì di meraviglia all’idea che gli appartenesse. C’era in lui pietà per l’erba e per i fiori; sentiva che gli alberi erano creature sue e sua creatura la terra. Per un istante, gli parve di essere sospeso nell’aria e di guardare giù in basso. «È mia» disse ancora. «E devo averne cura.» […] La sua fame di possesso si fece passione. « È mia» cantava. «Fino giù in fondo è mia, fino al centro della Terra.» Pestò col piede la terra soffice. Poi la sua esultanza divenne un acuto spasimo che gli passò attraverso il corpo come un fiume ardente. Si gettò col volto sull’erba e accostò la guancia agli steli bagnati. Le sue dita afferrarono l’erba bagnata, la strapparono e la strinsero ancora. I suoi fianchi batterono pesantemente la terra
La furia lo abbandonò, e rimase freddo, stupito e spaventato di se stesso. Si levò a sedere e si asciugò il fango dalle labbra e dalla barba. “Che è stato?” si chiese. “Che cosa mi è preso? Posso avere un bisogno così grande?”.
Cercò di ricordare con precisione quello che era avvenuto. Per un attimo la terra era stata la sua donna.

Ma se nel libro di Steinbeck c’è una simbiosi totale tra uomo e natura, che sfocia in un misticismo pagano, in Salvare le ossa i protagonisti hanno altre urgenze. Non sono interessati a Dio, non hanno pretese spirituali. Sono i neri d’America, gli ultimi, emarginati e senza un soldo. Combattere giorno dopo giorno per sopravvivere è il loro obiettivo; esaudire i loro desideri, a dispetto di un destino avverso e di una natura terribile e implacabile, la loro speranza. Scordatevi lo stile scorrevole e perfetto di Steinbeck. La scrittura di Jesmyn Ward, almeno in questo libro, è più tagliente, urgente. Diversa da qualsiasi altro romanzo americano che ho letto precedentemente, tutt’altra cosa rispetto alla corrente minimalista del XX secolo. Un libro che non ti aspetti. Forse è per questo che ho fatto tanta fatica, all’inizio.

Salvare le ossa è il primo libro della trilogia di Bois Sauvage. Jesmyn Ward, l’autrice, ci svela tutto in un brevissimo spazio temporale: dodici giorni, capitoli, pennellate: dodici URLI.

Il romanzo è raccontato in prima persona da Esch – l’unica figura femminile, la vera protagonista del romanzo – che vive con i fratelli e il padre in un avvallamento chiamato la Fossa. Inizia con il parto della cagna China, contrapposto al ricordo di quando nacque Junior, il fratellino piccolo. Ricordo infausto, dal momento che il parto del quarto figlio provocherà la morte della madre. Bella la contrapposizione delle due femmine, entrambe lottatrici: un simbolico passaggio di consegne. Con la morte della mamma i quattro ragazzi sono in balia di un padre distrutto dal dolore, assente e alcolizzato. La loro vita, già in salita, diviene un muro verticale. Il loro compito è sopravvivere, strappare istanti di felicità. Il loro approccio con il mondo è feroce e istintivo, prendere e non chiedere, un urlo e non una richiesta. Ultimi tra gli ultimi. Eppure non mollano. Anche quando l’uragano Katrina si abbatterà per davvero su di loro non mollano. Uragano che è una minaccia fin dalle prime pagine del racconto. Ci pensa il padre a ricordarlo ai figli continuamente: è la sua ossessione. Prepararsi all’emergenza sembra essere l’unica cosa a tenerlo in vita.
Eppure, il vero filo conduttore non è l’uragano, non è la morte, ma la vita.

Vi ho parlato delle due gravidanze ma ce n’è un’altra: Esch ha quattordici anni ed è incinta. Farà di tutto per non essere scoperta.
È lei la figura più potente e poetica del romanzo.

«Speri che stasera venga da te, eh?».
«Si può sapere di chi parli?».
«Lo sai di chi parlo. E non è Big Henry». Getta via un pezzetto di pelliccia sanguinolenta che pende come un orecchio rosso dalla pelle dell’animale. «E non è nemmeno Marquise».
«No». Scrollo la testa. Skeetah afferra la coda, o quel che rimane dello sparo, e tira. Il moncherino si stacca come setole da una spazzola.
«Non c’entrate niente voi due insieme» dice Skeetah esaminando la carcassa. Ha così caldo che gli suda il naso. “E invece sì” vorrei dirgli. “Lui mi fa battere il cuore così”, vorrei dirgli, e indicare lo scoiattolo che muore spruzzando sangue.

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Ho sognato di baciarlo. Più o meno tre anni fa l’ho visto fare sesso con una ragazza. […] Manny le aveva toccato il sedere e poi la pancia, come se stesse facendo le coccole a un cane, e allora la ragazza si era sdraiata e gli si era offerta. Lui le era montato sopra e aveva cominciato a muoverle la mano su e giù tra le gambe, poi l’aveva baciata. Due, tre volte. Con lei aveva spalancato tantissimo la bocca, l’aveva leccata come per assaggiarla, quasi fosse dolce come zucchero. La divorava. Chissà quando aveva smesso di baciare le ragazze a quel modo, o se è solo me che non vuole baciare. Adesso mi nuota intorno, guardando un po’ me e un po’ Big Henry e Marquise. A un certo punto mi afferra la mano e mi tira verso di sé, poi mi stringe le dita intorno al suo cazzo.
«Mica male, sì» dice. Voglio sentirlo, perciò allungo l’altra mano sott’acqua per toccargli il petto, i capezzoli grandi come chicchi di uva rossa, solo più morbidi. La pelle tra un muscolo e l’altro ha il colore dei lecca-lecca al caramello. Manny si stacca. «Ma cosa fai?». Il suo cazzo mi scivola via dalla mano, caldissimo nell’acqua fresca: poi non sento più niente.
«Volevo solo…».
«Esch». Manny sembra contrariato, come se se non sapesse chi è la ragazza che ha allungato le mani per toccarlo. Alla luce del fuoco il suo profilo affilato brilla come una moneta lucida. Quando sorride si assottiglia anche il labbro inferiore. «Sei impazzita?».

. . . . . . . . . .

E poi c’è suo fratello Skeetah – anche lui ti rimane appiccicato addosso -, che ha una  dedizione totale per China, il suo pitbull da combattimento. Ogni pensiero per lei e per i suoi cuccioli, neanche fossero i suoi figli. Una vera simbiosi, un vero e proprio amore reciproco.

Attaccato a China come un’unghia alla carne.

Sarà grazie a Skeet e China se Esch non perderà la fiducia nell’amore. Specialmente da quando capisce che Manny l’ha sempre solo usata per i suoi istinti primordiali.

Skeetah non bada a Junior perché è concentrato su China, come un uomo si concentra su una donna quando sente che gli appartiene, e China gli appartiene di sicuro.

Vi ho detto che Esch è l’unica figura femminile del romanzo: non è vero. Mi ero dimenticato della cagna. È osservandola che Esch impara il significato di maternità. Del resto non ha altri esempi davanti agli occhi, se non il parto, l’allattamento, e il sacrificio di quello strano pitbull nato per combattere.

E poi, l’ultimo capitolo: il dodicesimo giorno che conclude Salvare le ossa. Vivi: il nome che le ha dato l’autrice. L’ultimo urlo della storia: un urlo di gioia, di rinascita. Perché quando finalmente Katrina si placa, lasciando ogni componente della famiglia distrutto e a pezzi, quando oramai hanno perso tutto e sarebbe più semplice mollare, salvare le ossa e abbandonarsi ognuno al proprio dolore, si compattano di nuovo. Tornano ad essere una famiglia unita. Come quando era ancora viva la loro mamma. Di nuovo carichi di vita, di amore e di poesia. Merito di Katrina e del pericolo scongiurato, merito del figlio che aspetta Esch e che darà nuova speranza e linfa alla famiglia.

«Il padre chi è?» chiede Big Henry. Non c’è nessun fuoco divorante nei suoi occhi, nessun gelido ardore come in quelli di Manny. C’è solo calore, come nei giorni migliori dell’autunno, quando quelle poche foglie che ingialliscono incominciano a mutare colore e l’aria è limpida e senza nubi.
«Non ce l’ha un padre, dico». Prendo in mano un pezzo di mattone rosa. Mi infilo tutto nelle tasche. Skeetah mi ha raccontato la storia delle ultime parole di mamma, e io gli racconterò questa. “Questa era una bottiglia di liquore”, dirò. “E questa, questa era una finestra. Questo, un edificio”.
«Ti sbagli» dice Big Henry. Mentre lo dice guarda da un’altra parte, verso la distesa grigia del golfo. Laggiù, nell’acqua bassa, c’è una macchina. Si vede luccicare il rosso del tetto. «Questo bambino ce l’ha un padre, Esch». Mi tende la mano grande e morbida, morbida come le piante dei piedi, forse, e mi aiuta ad alzarmi. «Questo bambino ha un sacco di padri». Cerco di sorridere. Ho gli occhi umidi. Il sale in gola.
«E non dimenticare che tu hai me, sempre» dice.

. . . . . . . . . .

E noi rimarremmo qui con lui, in questo strano buio, dove anche gli insetti stanno in silenzio. Rimarremmo seduti qui finché non ci verrà sonno, e poi rimarremmo qui finché non ci faranno male le gambe, finché Junior non si addormenterà tra le braccia di Randall, e Randall starà attento a Junior e Big Henry starà attento a me e io starò attenta a Skeetah, e Skeetah non starà attento a nessuno di noi. Lui starà attento al buio, alle case devastate, agli elettrodomestici infangati, alle cime degli alberi intorno con le foglie che muoiono perché non hanno più radici. Alimenterà il fuoco per farlo ardere come un faro. Rimarrà in ascolto, in attesa di sentire la coda che batte, le zampe che affondano nel fango. Guarderà dentro il futuro e la vedrà emergere nel cerchio di fuoco, insudiciata dall’uragano, e lei non brillerà più ma avrà il colore dei denti di Skeet, del bianco dei suoi occhi, dell’osso prigioniero del sangue, spezzata ma viva, viva, viva, e quando lui la vedrà, la sua faccia si incrinerà e l’acqua scorrerà e riuscirà a erodere, come sempre fa l’acqua, il cuore di pietra rimasto dopo che lei è sparita.
“China”. Lei tornerà, e si ergerà, diritta e maestosa, senza più una goccia di latte. Abbasserà lo sguardo sul cerchio di luce che abbiamo acceso dentro la Fossa,e allora saprà che sono stata attenta, che ho lottato. China abbaierà e mi chiamerà sorella. Nel cielo soffocato di stelle, c’è un grande silenzio d’attesa.
Lei lo saprà che sono madre.

Salvare le ossa di Jesmyn Ward

Edizioni NNE, 2018 [2011].Traduzione di Monica Pareschi. Vincitore del National Book Award nel 2011.
Voto: 5/5

Come colonna sonora della canzone ho scelto Under Pressure dei Queen e David Bowie, pubblicato per la prima volta nel 1981.
Voto: 5/5

Cliccando QUI, potete sentirla.

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Sono nato a Modena nel 1964 e vivo in un paese che è parte dell’Unione dei Comuni del Distretto Ceramico. Da 35 anni faccio piastrelle. Mi occupo di ricerca. Crescere, crescere, crescere: non esistono altri obbiettivi. Ogni anno è una sfida. Sposato con due figli, da quattro anni scrivo su questo blog. Ma fin dal primo articolo ho capito che recensire un libro, un film o una canzone non è che un pretesto per raccontarmi: pensieri, passioni, desideri. Ricordi. Il vero scopo è fermare il tempo. Trattenere il più possibile istanti di felicità.

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