Mia madre mi dice sempre che figh e mlaun i hann la sò stagiaun (fichi e meloni hanno la loro stagione). Oggi giorno solo gli anziani parlano attraverso metafore, ed è un peccato perché con poche parole si dicono grandi verità. Lei mi parla in dialetto modenese, io le rispondo in italiano. Il fatto è che lei non ha mai imparato bene l’italiano e io il dialetto. Potrà sembrare strano ma funziona e ci capiamo perfettamente. Non parlo il dialetto perchè sono dislessico e imparare le lingue è sempre stato un problema e un mio cruccio, da sempre per l’inglese, ultimamente per il dialetto. Vengono così bene le barzellette, i modi di dire e i proverbi in dialetto! Ma funziona con qualsiasi frase: tîn bòta (resisti), et impièe la lus? (hai acceso la luce?), ciapèr la bâla (ubriacarsi), an dîr dal caiunèdi! (non dire stupidaggini!), al dè ed San Zemian (il giorno di San Geminiano). È tutto così leggero e tagliente quando si parla il dialetto modenese, una lingua schietta e sanguigna, come la terra che si coltivava e ti sfamava, come mia madre, che quando dice le cose non sono mai vaghe e fumose ma vere e proprie sentenze.
Figh e mlaun i hann la sò stagiaun, è un antico proverbio modenese, significa che ogni cosa ha il suo tempo, che bisogna guardare avanti e non voltarsi indietro. Eh già, mia madre è zen, e quando glielo dico mi risponde: sa ghé? Io invece, che zen vorrei esserlo per davvero, faccio il contrario, sognando ad occhi aperti istanti accaduti trenta, quaranta, perfino cinquant’anni fa. Istanti così precisi da sembrare reali. Ma non sono mica rincoglionito, e lo so benissimo che è nostalgia. Ricordi dunque, ma così cazzuti che se ne fregano se ho altri programmi, se sono in casa per strada o al lavoro, solo o in compagnia, triste felice o arrabbiato. Vincono facile. E non è detto che siano sempre ricordi speciali. Anche una cavolata, una cosa all’apparenza semplice e insignificante può toccarti e dare un senso alla tua vita.
Rincorrersi nel cortile, le coccole in braccio alla mamma, al magòun che mi veniva ogni volta in colonia, bere a rotta di collo dal lavandino, Tarzan, il primo goal segnato, il gioco della bottiglia, la grande nevicata del 1977, il primo lento, l’odore dell’erba appena tagliata, bagnarsi i piedi nell’acqua ghiacciata del laghetto delle ondine, Stanlio e Ollio, svegliarsi a mezzogiorno, Pepito di Maiorca, la prima volta che ho in preso in braccio mio figlio, nascondino, Lucio Battisti, i gialli e dai che al vîn!, le farfalle nello stomaco, le scogliere di Cliff of Moher, Zorro, la prima compagnia, la Vigilia di Natale dalla nonna, the Blues Brothers, l’ultimo giorno di scuola, Zagor, la vasca in centro, ti amo, il mio primo pallone, far colazione alle 7,00 del mattino a Positano, 101 storie zen, la zuppa inglese, spingere per dieci volte il tuo bimbo sull’altalena, l’11 luglio 1982 Nando Martellini e campioni del mondo campioni del mondo campioni del mondo!
Momenti indelebili e indimenticabili. E se continuo a pensarci ne potrei citare altri cento, e poi altri cento ancora. Ma è proprio questo il punto: ci penso e mi vengono in mente. Ma con la nostalgia, con un ricordo improvviso non funziona così. O almeno non è automatico. È lui che viene a te e non viceversa. Perché un ricordo, come con un rigurgito che risale dal profondo, è imprevedibile, inatteso.
Il ricordo che vorrei condividere con voi in questo articolo è proprio uno di questi. Non è niente di speciale, non ci pensavo da millenni e poi eccolo qua. Qualcuno, quando lo leggerà, potrebbe storcere il naso, sbottare: è tutto qui?
E allora preferisco rispondervi subito, prima di raccontarvi la storia. Sì, è tutto qui! Ma è un tutto qui che mi cambia la giornata. Perché se ci pensate nasce tutto dalla nostra testa, siamo noi che eleviamo le cose da ordinarie a straordinarie. La stessa situazione viene recepita da ognuno di noi diversamente. Un incontro, un dialogo, una funzione religiosa, l’ennesimo dramma dei profughi, una canzone, un libro o un film, può essere per alcuni commovente, esilarante e coinvolgente, per altri insignificante, noioso e deprimente. Chiamiamolo pathos. Per me è la capacità che tutti noi abbiamo (più o meno) di commuoverci, di emozionarci, di provare affetto e partecipazione verso il prossimo.
Ho una canzone che forse mette d’accordo tutti: Yesterday. Io mi emoziono tutte le volte che l’ascolto. Esiste una canzone più struggente di questa? È per questo che è presente in C’era una volta in America, nonostante la colonna sonora dell’intero film sia di Ennio Morricone. Yestarday, che si sente una volta sola, quando Noodles (interpretato da un fantastico Robert De Niro), oramai vecchio, ritorna nel ghetto ebraico di New York della sua infanzia, ricorda gli avvenimenti di quarant’anni prima. Ora, non so come siano andate le cose, se è stata un’idea del compositore o di Sergio Leone. Tutte le melodie sono di Morricone e sono stupende e perfette per questa storia, ma la canzone dei Beatles in quel preciso momento è la ciliegina sulla torta. Struggente come l’intera colonna sonora, struggente come il film stesso.
Torniamo al ricordo che si è impossessato di me. Ho scelto volutamente di mantenervi all’oscuro. Solo alla fine scoprirete l’arcano. Confido nella vostra pazienza, nella vostra curiosità e fiducia.
- È una canzone che mi piace. Ma se vi facessi una mia Hit probabilmente non entrerebbe tra le prime 100.
- È una canzone che ogni volta mi emoziona. Ma in un’ipotetica Hit di questo genere (Yestarday sarebbe al primo posto) non entrerebbe in classifica.
- È una canzone che ho sentito per la prima volta in TV.
A Sanremo.
In quegli anni Sanremo era davvero Sanremo. E Sanremo lo vedevi davvero per ascoltare le canzoni.
Erano gli anni ’80 (a volte sento dire che gli anni ’80 sono stati, anche artisticamente parlando, un decennio nero. Io non ci credo: Blade runner, Ritorno al futuro, Shining, The Blues Brothers, Troisi, Benigni, Verdone, Guccini, De Andrè, Dalla, De Gregori, Vasco Rossi, Bruce Springsteen, Depeche Mode, Michael Jackson, Queen, Madonna, Il nome della rosa, La casa degli spiriti, L’amore ai tempi del colera, L’insostenibile leggerezza dell’essere…).
La canta un cantautore italiano, dalla voce rauca, potente, soul.
Insieme ad una giovane interprete italiana: bella, bionda, grande estensione vocale, bellissimo timbro.
Indovinato?
Va be’: ho deciso di accelerare. Hanno vinto Sanremo.
Presentano la canzone e sul palco c’è solo l’uomo: di mezza età, statura media, capelli castani e ricci. Inizia a cantare:
… ti aiuterò a sconfiggere
i dolori che verranno e
che saranno anche i più grandi
degli amori che ti avranno
e lascerò ai tuoi occhi
tutta una vita da guardare
ma è la tua vita e non trattarla male…
La regia stacca e inquadra la scalinata dell’Ariston, inquadra una donna: bionda, alta, slanciata, elegante, che scende lentamente e a tempo di musica i gradini e inizia a cantare e ad emozionare, danzando, ancheggiano, fluttuando:
… perché sarò al tuo fianco
piuttosto che permettere
di dirmi che sei stanco
lo faccio perché in te
ho amato l’uomo e il suo coraggio
e quella forza di cambiare
per poi ricominciare
e quando avrai davanti agli occhi
altri due occhi da guardare
il mio silenzio lo sentirai gridare…
È un duetto che spacca.
Penso che abbiate indovinato, ma ve lo dico lo stesso.
I vincitori del Festival della canzone italiana del 1989 sono Anna Oxa e Fausto Leali con Ti lascerò.
ti lascerò vivere
ti lascerò ridere
ti lascerò ti lascerò
e lascerò ai tuoi sorrisi
la voglia di scoppiare
ed il tuo orgoglio lo lascerò sfogare
ti lascerò credere
ti lascerò scegliere
ti lascerò ti lascerò
ti lascerò vivere
ti lascerò ridere
ti lascerò, ti lascerò
Vi propongo in conclusione il video di questa canzone, sono 4 minuti e 16 secondi di magia. Perché di magia si è trattato. Cliccando QUI potete vedere, ascoltare, emozionarvi.


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