La porta di Magda Szabó (Debrecen 1917 – Budapest 2007), è un romanzo che non si dimentica. Duro e crudo ma assolutamente da leggere, difficile ma bello. È la storia del rapporto conflittuale tra due donne che sono l’una l’opposto dell’altra.
Magda, la narratrice della storia, scrive libri, ne ha letti a centinaia, va a messa tutte le domeniche ma è completamente inadatta ad affrontare i problemi della vita, i sentimenti.
Emerenc, l’anziana donna delle pulizie, non ha mai scritto nulla, non ha mai letto un libro, eppure sa come comportarsi. È lei l’anello forte tra le due. È lei che detta le regole. È lei che prima di accettare si procura le informazioni sui suoi datori di lavoro, e non viceversa, perché: io non lavo i panni sporchi al primo che capita. E quando Emerenc decide per il sì lo fa servendo con tutta la dignità, la dedizione e l’amore che l’hanno contraddistinta in tutta la sua vita, dal momento che amare per lei vuol dire una cosa semplicissima: Sapersi prendere cura. E lei si prende cura delle persone senza risparmiarsi, senza distinzioni tra la sfera privata e quella lavorativa, senza confini o regole prestabilite dalla società o da un Dio. Emerenc non ha bisogno di Dio per amare, di leggere Nietzsche per sapere che Ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male. Lo sa e basta. Il suo è un amore di pancia, viscerale. È per questo che non chiede mai permesso e nemmeno scusa. Ed è sempre per questo che quando capisce che non può far nulla, che alcune persone se ne vogliono semplicemente andare – e non è detto che siano ammalate, non è sempre così semplice, a volte non ce la fanno più: PUNTO! – le lascia andare. E lo fa perché sente quello che provano. Lo fa perché le ama. E se glielo chiedono le aiuta ad andarsene. E non so cosa ne pensate voi, ma io penso che bisogna amare davvero tanto per fare tutto questo.
E sarà proprio Emerenc ad insegnare alla padrona – e a tutti noi lettori – che la vita, così come l’amore, non s’impara sui libri, non ha confini, non basta andare in Chiesa e fare l’elemosina per sentirsi a posto con la propria coscienza. Perché tutto ciò non è che un surrogato della vita, ti fa sentire protetto questo sì, ma anche inquieto, insicuro, e chiuso come in un guscio nel proprio piccolo mondo. Viceversa la vera vita è immergersi completamente in essa, è aprirsi: prendersi cura degli altri, servirli.
Ma l’amore ha un prezzo alto da pagare: la compassione. Compassione che si trasforma in sofferenza ogni volta che vedi i tuoi cari ammalati o anche solo infelici, e in disperazione ogni volta che se ne vanno.
Ai tempi dell’università detestavo Schopenhauer, nel corso della vita, invece, mi sono resa conto che ha ragione quando sostiene che ogni legame sentimentale rappresenta una potenziale aggressione, da quante più persone ci lasciamo avvicinare tanto più numerosi sono i canali attraverso cui il pericolo può colpirci.
Penso a Emerenc e l’assomiglio ad una mosca bianca, ad un personaggio mitologico. Penso a Emerenc e mi torna in mente un film, e una canzone.
Il film è Il Danno, con Jeremy Irons e Juliette Binoche.
Ricordatelo, chi ha subito un danno è pericoloso: sa di poter sopravvivere…
Perché così come Anna, interpretata dalla splendida Binoche, anche Emerenc ha subito danni irreparabili nella sua vita.
E così partimmo di buon mattino tutti e tre, tenevo i due bambini biondi per mano, ma non facemmo tanta strada, appena arrivati in fondo all’aia vollero sedersi, mi chiesero da mangiare, poi un po’ d’acqua, corsi all’abbeveratoio con la ciotola di latta che tenevo sempre appesa al collo con uno spago, perché avevo imparato che i bambini piccoli supplicano sempre acqua, senza ciotola non ci stavo mai, nemmeno in casa, non solo se m’incamminavo per un lungo tragitto. L’abbeveratoio era vicino, o forse lontano, che ne sa una bambina piccola di quel che è vicino o lontano. Appena lo raggiunsi, scoppiò un temporale, non s’era mai vista una tempesta arrivare così all’improvviso, tuoni fragorosi mai sentiti, la campagna non era mai stata sconvolta da una uragano così violento. Il cielo cambiò all’istante, non diventò nero, come le altre volte, ma color lilla, sembrava che avesse acceso dei fuochi in mezzo alle nuvole, esplose un tuono, il rombo si propagò alto nel cielo, poco mancò che mi lacerasse i timpani, gettai la ciotola e mi precipitai indietro di corsa, perché quando mi voltai per cercare i due gemellini biondi non li vidi più, vidi soltanto un fulmine che squarciava l’albero sopra le loro teste. C’era fumo ovunque, quando li raggiunsi erano già morti, tutti e due, ma non mi resi conto che fossero loro perché non avevano più un aspetto umano. La tempesta era scatenata, la pioggia dell’acquazzone mi colava addosso come fosse sudore, ero ferma immobile davanti al mio fratellino e alla mia sorellina, vidi due ciocchi neri che sembravano due pezzi di legno carbonizzato, soltanto un po’ più piccoli, e contorti, rimasi ferma come una stupida, girai la testa qua e là per capire dove s’erano ficcati i due biondini, perché quelle due robe strane non potevano essere i miei fratellini. Si stupirebbe se ora le dicessi che mia madre si buttò nel pozzo? Le mancava solo quello, quello spettacolo, e io che gridavo isterica, gridavo talmente forte che, durante le pause del temporale, la mia voce si sentiva fino alla strada statale, fino a casa nostra. Mia madre uscì a piedi nudi, senza soprabito, mi piombò addosso, mi picchiò dappertutto, anche se non sapeva che avevo voluto fuggire dai suoi lamenti, dalle sue eterne preoccupazioni, dal suo cattivo umore, dalle sue lacrime, non sapeva quel che faceva, per la disperazione voleva soltanto distruggere, colpire alla cieca quel che le capitava sottomano, quando capì perché l’avevo chiamata, e vide i bambini, il suo viso s’infiammò all’improvviso, schizzò come una freccia, si precipitò a zig zag in mezzo alla pioggia, i capelli sciolti fino a terra, correva e lanciava grida acute come un uccello impazzito. La vidi che si gettava nel pozzo, ma non riuscii a muovermi, rimasi in piedi accanto all’albero e ai due corpicini, i tuoni e i lampi erano cessati, se in quel momento fossi corsa accorsa ad aiutarla avrei ancora potuto salvarla, la nostra casa si trovava vicino alla strada, l’aia cominciava alla fine del nostro giardino, ma rimasi ferma come stregata, senza pensieri nella testa, il cervello paralizzato, la fronte inzuppata di pioggia. Nessuno amava i due piccoli più di me, continuavo a fissare quei due ciocchi neri senza riuscire a credere di avere qualcosa in comune con loro, non gridai per invocare aiuto, guardavo nel vuoto imbambolata e solo di sfuggita pensai a mia madre, chiedendomi perché restasse così a lungo in fondo al pozzo.
La canzone è Albergo a ore, di Gino Paoli. E più precisamente penso alle parole con cui Gino Paoli presenta questa canzone prima di cantarla dal vivo. E lo so che sto andando anche con questo articolo fuori tema, ma è più forte di me. E poi se non ne scrivo questi pensieri non se ne vanno. Quindi.
Protagonista dell’introduzione è un portiere di notte, una persona semplice come Emerenc, che fa lo stesso lavoro di Emerenc. Ma non è solo questo. Il fatto è che entrambi sono poeti. E lo sono a prescindere dal titolo di studio, dai libri pubblicati. Lo sarebbero anche se fossero analfabeti, dal momento che la loro poesia è la loro maniera di vivere.
Ho conosciuto gente che non aveva scritto niente, anzi certe volte non sapevano neanche scrivere ed erano dei poeti. La loro poesia era la loro maniera di vivere, la loro vita. In fondo le cose non sono mai belle o brutte, le storie non sono mai straordinarie o ordinarie, lo diventano. Lo diventano negli occhi di chi li guarda. Nella storia che adesso vi racconterò gli occhi sono quelli di un piccolo portiere di notte che viveva in fondo a un brutto albergo, da tanti anni. Vede solo cose squallide. L’uomo è un animale estremamente adattabile, si fa una corazza che non fa passare più niente, e sopravvive. E invece no, come una lama, come una luce, una storia gli arriva al cuore. E sarà proprio negli occhi di questo omino inutile, che questa storia diventa straordinaria.
Cliccando QUI, potete sentire questa bella canzone di Gino Paoli.
La Porta
di Magda Szabó. Giulio Einaudi editore 2005, 2007 e 2014 [1987]. Traduzione di Bruno Ventavoli.
Voto: 4/5


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