È una storia semplice: una ragazza bullizzata che incontra la sua anima gemella e s’innamora.
Niente di nuovo quindi?
Tutt’altro, perché pochissimi libri mi hanno coinvolto, appassionato ed emozionato come questo. E non solo perché è bello e avvincente dalla prima all’ultima pagina, che già questo….
Non solo perché è un piacere per il cuore: chi di noi non si immedesima in un amore adolescenziale?
Mi ha conquistato soprattutto perché è un piacere per l’intelletto.
Il fatto è che mi ha insegnato davvero tanto, da essere costretto a tenere a portata di mano penna e taccuino, dalle tante parole, frasi e metafore che spaccano.
Complimenti a Enrico Galiano, l’autore. Ho letto che insegna lettere, e che i suoi studenti lo adorano per il suo modo non convenzionale di spiegare le cose: tale e quale al libro.
Non mi va di raccontarvi la trama. Questo è un romanzo che dovete leggere se non l’avete già fatto, e non vorrei svelare più del dovuto.
Vi racconterò due o tre cose, fra le tante che mi hanno toccato: troppo forte il piacere che provo a condividerle.
La prima: sono alcune delle parole intraducibili che ama Gioia (be’, la protagonista del libro non posso mica tacervela…).
Ne esistono in tutte le lingue del mondo e da sempre Gioia ne è affascinata. Sono parole gravide di significato, intraducibili nelle altre lingue.
Come Wenn ein Glückliches fällt.
Perché, fra le tante parole che Gioia ha collezionato, è questa che ogni mattina si scrive sul braccio sinistro, mentre aspetta l’inizio della prima ora di scuola.
Quella che descrive meglio ciò che prova.
Wenn ein Glückliches fällt
È l’ultimo verso di una poesia di Rainer Maria Rilke, che nel finale suona più o meno così:
E noi che pensiamo la felicità come un’ascesa
ne sentiremo il tocco,
che quasi ci sgomenta,
quando una cosa felice cade.
Quando la felicità è qualcosa che cade, si potrebbe semplificare.
Ma significa molto molto di più, è un verso che proprio non si può tradurre con poche parole. Gioia se le scrive per ricordarsi che la maggior parte della bellezza del mondo se ne sta lì, nelle cose inutili, nelle cose che cadono, nelle cose che tutti buttano via.
Oppure shu.
Una parola cinese che in tre sole lettere dice una cosa grandissima: mettere l’altro nel cuore.
Quello che i suoi compagni non riescono proprio a fare.
A Gioia piace talmente tanto che ha imparato anche a disegnarne il carattere.
… per i cinesi è impossibile pensare ad un “io” senza un “tu”, per loro l’io si definisce solo grazie al tu, per cui questa parola indica la necessità di tenere sempre presenti i sentimenti dell’altro, di non dimenticarli mai, non calpestarli mai.
In giro, però, Gioia vede che i ragazzi che ha intorno non fanno praticamente altro, tutto il tempo, che pensare all’io come se non ci fosse nessun tu.
In giro vede solo ragazzi, e anche adulti, che non hanno idea di cosa sia la “shu”.
E di seguito vi elenco altre quattro parole intraducibili, rivelatrici, in parte, della storia di amore tra Gioia e Lo (il protagonista maschile).
Mamihlapinatapai: una parola lunghissima degli Yahhan – tribù indigena della Terra del Fuoco, la punta più meridionale del Sud America -, che significa guardarsi e aver voglia di baciarsi ma senza nessuno che abbia il coraggio di fare la prima mossa.
Perfetta per descrivere quello che provano Gioia e Lo appena prima di baciarsi.
Hoppìpolla: un bellissimo verbo islandese, che significa saltare nelle pozzanghere.
Che è proprio quello che farà Gioia mentre torna a casa, dopo aver baciato Lo.
Abbacinare: l’unica parola al mondo che significhi fare così tanta luce da far male.
Quello che accadrà a Gioia.
Perché troppa luce, troppa felicità, possono anche essere una tortura.
Magari: la preferita di Gioia.
«E perché ti piace così tanto?»
«Boh, forse perché ho letto che in realtà all’inizio, in greco cioè, voleva dire “felice”, o forse perché riesce in sei lettere sole a significare “se solo questa cosa fosse vera.”
«E questo ti piace?»
«Tantissimo. Perché ogni volta che la usi crei un mondo che non c’è e che magari può esserci.»
«Magari.»
«Già, magari.»
La seconda cosa, che vi racconterò del libro, è una lezione di Bove.
L’insegnante preferito di Gioia. L’unico che si fa capire, pur parlando di filosofia.
Una mattina si presenta in classe con un vassoio pieno di paste giganti che apre sulla sua scrivania; poi estrae a sorte gli alunni invitandoli a scegliere il loro dolce preferito, ammonendoli di non mangiarlo, non fino a quando tutti avranno completato l’operazione, non senza aver avuto il suo via.
Poi, mentre tutti hanno le bocche piene, il prof dà un colpo secco alla cattedra e dice: «Fermi! Fermi tutti! Mettete immediatamente giù il pasticcino!». […]
Così la classe si ferma. Nessuno va più avanti a masticare. E tutti posano il resto del loro pasticcino sul banco.
«Prof si può sapere cosa…»
«Stia zitto, Casali. E si pulisca la bocca, che sembra la latrina della stazione dei treni!»
La classe sghignazza.
Bove si alza in piedi. Si mette davanti alla cattedra. E comincia.
«La vita che ci capita è la vita che ci capita. Lo so che ci sono centinaia di teorie sul destino, o sul Karma, o sulla giustizia divina. Aristotele, Hegel, perfino Schopenhauer, in fondo, erano tutti convinti che ci fosse un disegno preciso, un bello schema prestabilito di concatenazioni di cause ed effetti. La mia idea è che sia tutta quanta, sempre, solo una questione di culo».
Facce dubbiose. Qualche risata, ma solo perché il prof ha detto “culo”. Quasi nessuno ha ancora capito di cosa stia parlando il vecchio o dove voglia andare a parare.
«Il vostro pasticcino, il pasticcino dei vostri sogni era lì, nel vassoio. Solo che pochi di voi hanno avuto la fortuna di poterlo scegliere, quelli che sono stati estratti per primi. Gli altri hanno dovuto accontentarsi di quello che era rimasto.» […]
«E quando ve lo siete portati al posto, ognuno l’ha mangiato a modo suo, alla sua velocità, ma quasi tutti avete fatto la stessa cosa, avete notato?»
I ragazzi si guardano. No, non hanno notato.
«Avete iniziato a mangiarlo partendo dalla parte secondo voi meno buona. Tutti i pasticcini avevano la crema o il cioccolato, insomma avevano una parte più buona, e voi volevate lasciarla per ultima, ve ne siete accorti?»
«Io faccio sempre così prof!» dice qualcuno.
«Io me lo sparo in bocca come viene!» dice Boccia. Risate.
«Però non sapevate che vi avrei detto di fermarvi. Nessuno di voi poteva saperlo.»
«Sì, prof, a proposito: è stata un po’ una vigliaccata! Se lo avessi saputo sarei partito dalla crema!» dice Casali.
«Eh lo so, Casali, lo so. Ed è per questo che vi ho detto di fermarvi. Per farvi capire come funziona.» […]
«Perché non funziona che c’è un tempo per giocare e un tempo per decidere. Non funziona che “Ah sì un giorno farò questo e farò quello”. Non funziona che “Queste cose le farò quando avrò una casa e un lavoro” – mentre lo dice il professore imita le voci, in leggero falsetto – non funziona che “Adesso mi diverto. Poi ci penso”. Funziona che il momento è sempre e solo adesso, che se pensate di tenervi il meglio alla fine siete dei cretini, che se ve ne state lì buonini buonini nascosti dietro la scusa che adesso siete piccoli, che adesso non è ancora il momento, domani e fra dieci e fra vent’anni farete sempre la stessa cosa, direte sempre che non siete pronti, che non è il momento, che ci vuole ancora tempo. Funziona che state lì ad aspettare di essere sicuri, di essere tranquilli, la crema non la mangerete mai, perché l’unica certezza che abbiamo è che nessuno di noi, nessuno, finirà mai di mangiare il suo pasticcino per intero. Ci sarà sempre qualcosa che resterà da fare. Ci sarà sempre qualcosa di incompleto.» […]
«E non pensate che quando dico «crema» voglia dire uscire, divertirsi, drogarsi e tutte le cose che fate voi quando credete di mangiare la crema. La crema, qui, è il coraggio di essere sé stessi, la voglia di far vedere chi sei, di tenere gli occhi aperti, di far sentire la tua voce. Quella è la crema. Ecco, non funziona che c’è un momento in cui si può fare a meno di farlo, un periodo di prova, un “non è ancora ora”: funziona che hai solo un pasticcino, e poco tempo per mangiarlo.»
Eppure cadiamo felici
di Enrico Galiano. Edizioni Garzanti (2017)
Voto: 5/5
Concludendo: è stato un piacere inatteso.
Sarà che l’ho iniziato in sordina, sarà che ne avevo proprio bisogno, ma è questo che ho provato quando ho finito il libro: un piacere inatteso!
E chissà se esiste al mondo una parola intraducibile, una sola, capace di spiegare anche questo: il piacere, la sorpresa e la gratitudine – giacché ci sono ci metto anche questa, dai! – che devo a Enrico Galiano.
A fine libro c’è il Dizionario delle parole intraducibili di Gioia Spada, l’ho letto più volte e devo dire che è molto interessante, ma niente! Non l’ho trovata.
In compenso ne ho trovata un’altra: Gigil (tagalog: la lingua più diffusa delle Filippine): la voglia di far male a qualcuno da quanto desideri toccarlo.
La dedico a mia moglie.
Vedi cara non è come dici sempre tu: che ti faccio i dispetti apposta.
Ho semplicemente il gigil…


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Salve. Dopo questa ” recensione” è d’ obbligo leggere il libro. Grazie.
Grazie a te Gabriella. Fammi poi sapere…
letto per caso, è stato un regalo, e dopo le prime pagine il dubbio di essere incappata in un libro per ragazzi…..e poi letto tutto d’un fiato, semplicemente bellissimo meraviglioso come non ti aspetti e con la voglia di imparare a memoria tutte quelle parole intraducibili , gran bel libro , storia di giovani che insegna tanto ai meno giovani, con un professore che riscatta la categoria degli insegnanti
Sono d’accordo, uno scrittore che non conoscevo e che continuerò a seguire.