Quel che affidiamo al vento

In Giappone – in un giardino chiamato Bell Gardia, una delle zone più devastate dallo tsunami del 2011 – c’è un vecchio telefono non collegato che trasporta le voci del vento. Da tutto il Giappone migliaia di persone ogni anno visitano quella cabina per parlare nell’aldilà, ritrovare i loro cari.

Quel che affidiamo al vento si ispira a questo luogo, a questa magia. Già solo per questo il libro merita di essere letto. Laura Imai Messina è la bravissima autrice. Curiosa la sua storia: nata a Roma nel 1981, dopo la laurea è andata in vacanza in Giappone e non è più tornata: troppo forte l’amore per la lingua e la cultura nipponica. Da quindici anni vive a Tokyo, insegna in alcune delle più prestigiose università della capitale, pubblica libri.

Io questa storia del telefono non la conoscevo, mi ha fatto piacere sapere che non è una leggenda ma un luogo reale che consola e dà speranza a così tante persone.

Un romanzo spirituale dunque. E in questo momento poi…
Ma sinceramente quando ho iniziato il libro ero un po’ titubante – lo aveva scelto mia moglie e temevo che fosse il solito genere spirituale. Avete presente? Quello di Paulo Coelho, per intenderci. Non che ci sia niente di male, c’è stato un periodo della mia vita che non leggevo altro, ma ultimamente preferisco altri generi.
Be’ certo, l’incipit del libro è garantito. Le persone che giungono a Bell Gardia sono anime ferite. Rimettere il loro cuore a quel luogo magico, a quel vento che porta suoni, profumi, ricordi: l’obiettivo comune.
Ma il romanzo, come la vita è poi tanto altro, e la cabina telefonica si rivelerà un mezzo per raccontare l’incontro di Yui e Takeshi, la loro storia.
Complimenti all’autrice. Ho sempre trovato i libri di autori giapponesi – Haruki Murakami a parte, che amo ed è unico nel suo genere – un po’ troppo: raffinati, surreali, spirituali, lenti… Viceversa ho trovato questo romanzo di Laura Imai Messina – la sua scrittura – scorrevole e piacevole, pur mantenendo uno stile sofisticato e credibile. Probabilmente, ho pensato, è la contaminazione tra due culture così diverse – Occidente e Oriente – che funziona.

Ho poi detto che quel telefono è un mezzo. Non vorrei averlo sminuito troppo. Avrei potuto dire scossa, obiettivo, viaggio. Avrei potuto dire che è un piacere. Ecco la parola giusta.
Quel viaggio è un piacere. Piacere che era uscito dal vocabolario di Yui e Takeshi, e che gli ridarà speranza, desiderio.

«E insomma» aveva esordito la voce che aspirava a stretti intervalli una sigaretta «c’è questa cabina telefonica  in mezzo a un giardino, su una collina isolata dal resto. Il telefono non è collegato ma le voci le porta via il vento. Dico Pronto Yōko, come stai? e mi pare di tornare ad essere quello di una volta, mia moglie che mi ascoltava dalla cucina, sempre indaffarata sulla colazione o sulla cena, io che brontolavo perché il caffè mi bruciava la lingua.»
«Ieri sera leggevo a mio nipote la storia di Peter Pan, il ragazzino volante che perde la sua ombra e la bambina che gliela ricuce sotto la suola, ecco, credo che siamo così anche noi che andiamo su quella collina: cerchiamo di riavere indietro la nostra ombra.»
In redazione erano tutti ammutoliti, come se un oggetto estraneo ed enorme fosse improvvisamente precipitato tra loro.
Anche Yui, di solito abilissima nel tagliare interventi troppo lunghi, con poche, calibrate parole, non fiatò.

È così che Yui scopre quel luogo. Un ascoltatore ne aveva parlato alla radio, era intervenuto proprio nel suo programma, aveva raccontato che andare lì lo faceva stare bene. E Yui – per la prima volta da quel maledetto tsunami che si è portato via la madre e la figlia – chiede due giorni di ferie.
Si mette in viaggio.
E già l’intenzione è un nuovo inizio.
C’è una frase di Sant’Agostino che mi è rimasta impressa, dice più o meno la stessa cosa, almeno pare a me. L’ho letta nel Siddharta di Hermann Hesse, un libro che mi ha cambiato la vita.

Quel cercare che è già di per sé un trovare (Sant’Agostino)

E sarà così anche per Yui. Perché rimettendosi in gioco troverà Takeshi.
E quell’incontrò cambierà la vita ad entrambi.

Si salutarono con un affetto che a nessuno di loro parve eccessivo. Entrambi sentirono piuttosto d’essersi in qualche modo trovati, come due oggetti per caso avvinghiati sul fondo d’una borsa piena di cose. […]
Per la prima volta dal giorno dello tsunami, accettò di dubitare della fermezza che si era imposta, della decisione di tagliare in due il mondo, quello dei vivi da quello dei morti.
A parlare con chi non c’è più, pensò, non si fa forse nulla di male.
Bastava accettare che le mani non toccassero nulla, che lo sforzo di memoria fosse tale da riempire le falle, che la gioia di amare si concentrasse non nel ricevere, ma solo nel dare.

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Da bambini la felicità la si percepisce come una cosa. Un trenino che spunta da una cesta, la pellicola che avvolge una fetta di torta. O magari anche una fotografia che li ritrae al centro della scena, dove non ci sono occhi che per loro.
Da grandi si fa tutto più complicato. La felicità è il successo, il lavoro, un uomo una donna, tutte cose sfumate, laboriose. Quando c’è, e anche quando non c’è, diventa soprattutto questo, una parola. Ecco, pensò Yui, l’infanzia insegnava invece un’altra cosa, cioè che bastava allungare la mano nella direzione giusta e la si sarebbe ottenuta.

È evidente, da grandi è tutto più complicato, la felicità non è un diritto acquisito come da bambini ma una conquista. Una montagna insormontabile. Certo, tutti noi crescendo siamo soggetti a perdite, le cicatrici che ne conseguono sono inevitabili, nessuno ne è immune. Sono parte attiva della vita. Le dobbiamo accettare, non già dimenticare – mai! – ma lasciarle andare, assorbirle per poter ricominciare.
Perché la vita va avanti, se solo gli diamo una nuova opportunità.

La vita è come uno specchio: ti sorride se la guardi sorridendo (Jim Morrison)

E ancora una volta sarà l’amore a vincere: l’unico antidoto naturale capace di scalare ogni montagna insormontabile.

Quel che affidiamo al vento

di Laura Imai Messina. Pubblicato per Piemme da Mondadori libri (2020)
Voto: 4/5

Concludo dedicando a tutti una storia Zen.

 Non si può rubare la luna

Ryokan, un maestro di Zen, viveva nella più assoluta semplicità in una piccola capanna ai piedi di una montagna.
Una sera un ladro entrò nella capanna e fece la scoperta che non c’era proprio niente da rubare.
Ryokan tornò e lo sorprese. «Forse hai fatto un bel pezzo di strada per venirmi a trovare,» disse al ladro «e non devi andartene a mani vuote. Fammi la cortesia, accetta i miei vestiti in regalo».
Il ladro rimase sbalordito. Prese i vestiti e se la svignò.
Ryokan si sedette, nudo, a contemplare la luna. «Pover’uomo,» pensò «avrei voluto potergli dare questa bella luna».

da 101 Storie Zen. Piccola biblioteca Adelphi. A cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps. Traduzione di Adriana Motti (1973) [1957].

Una storia Zen, così come lo Zen, così come le parabole dei vangeli non si dovrebbero spiegare con le parole.
Assumono significati diversi da persona a persona, a seconda dello stato d’animo che si ha quando si leggono, dal vissuto. È per questo che si possono leggere infinite volte ma rimangono sempre un mistero. Sono un’esperienza, come l’amore, come la poesia. E un’esperienza non la si può spiegare con le parole, ti ci devi immergere.

È un dito puntato verso la luna; dimentica il dito e guarda la luna!

da I maestri raccontano di Osho.

Nell’immagine di copertina Andrea Dechange, graphic designer, interpreta l’Ensō (円相).
L’Ensō è un simbolo sacro dello Zen e simboleggia l’illuminazione, la forza, l’universo. In giapponese significa cerchio. È usato dai maestri zen come firma nelle loro opere. Può essere chiuso o aperto con pennellate spesse o sottili, con o senza scritte. L’unica regola: il gesto è unico e irripetibile, non si può correggere.

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Sono nato a Modena nel 1964 e vivo in un paese che è parte dell’Unione dei Comuni del Distretto Ceramico. Da 35 anni faccio piastrelle. Mi occupo di ricerca. Crescere, crescere, crescere: non esistono altri obbiettivi. Ogni anno è una sfida. Sposato con due figli, da quattro anni scrivo su questo blog. Ma fin dal primo articolo ho capito che recensire un libro, un film o una canzone non è che un pretesto per raccontarmi: pensieri, passioni, desideri. Ricordi. Il vero scopo è fermare il tempo. Trattenere il più possibile istanti di felicità.

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