La mia gattina zen

Ve lo dico subito: mia moglie va matta per i gatti; è vent’anni che siamo insieme ed è vent’anni che spinge per prenderne uno. Be’, ce l’ha fatta, e il secondo sabato pomeriggio di Luglio, liberi dal lockdown – Luisa contenta come una Pasqua -, siamo andati a prendere Raven: la nostra gattina siberiana.
Raven è il nome che le ha dato l’allevatrice. È tigrata come la mamma, mentre il padre è completamente bianco. Raven in inglese significa corvo, ed è anche il nome di un fumetto: un supereroe femminile. Ho letto che nel fumetto il padre di Raven si chiama Trigon: un demone che vuole impadronirsi dell’universo; e volete sapere come va a finire la storia del fumetto? Va a finire che Raven combatterà e sconfiggerà proprio il padre, salvando così la Terra e l’universo. Luisa si è messa in testa che Trigon sta per tigrato e non vuole sentir parlare di demoni.
Punto. Fine della storia.
Io, la nostra gattina, l’avrei chiamata Gnola o Ciuiga o Zoccolante: tre nomi dignitosi, ma Luisa non ha sentito ragioni. «Ormai che si è abituata è meglio lasciarle questo nome».
«Abituata???», ribatto io: «ma se da quando la chiamo non si è girata nemmeno una volta!».
Rimane il fatto che la nostra vita non è più quella di prima.
Raven?
Raven non fa altro che dormire, mangiare e giocare.
Giocare con noi!
Appiccicata, incollata, attaccata a noi neanche fossimo cibo. Anche adesso che sto scrivendo questa storia sul computer continua e continua a salire sul tavolo e a zampettare sulla tastiera.
Tavolo in cui sale ogni volta che mangiamo.
«Devi riempire uno spruzzino di acqua e spruzzargliela sul muso ogni volta che sale sulla tavola », mi ha consigliato Simone, un mio collega di lavoro esperto di gatti. «Dopo un paio di volte vedrai che impara la lezione, e basta farle vedere lo spruzzino, farle il gesto, per farla desistere».
Quando l’ho detto a Luisa apriti cielo: «Ma siete matti? E se poi le vengono dei complessi?».
«Sempre meglio delle sberle», ho ribadito io.
Spruzzino accantonato, veniamo alla nota dolente: la notte! Sentite cosa ha risposto Simone, quando gli ho chiesto se i loro gatti dormono con loro: «Abbiamo un cucciolo di tre mesi anche noi e lo chiudiamo a dormire nel bagno, dove c’è la lettiera. Altrimenti sarebbe continuamente sul letto e non ci farebbe dormire. E voi?».
«Noi? Noi dormiamo nel letto con Raven. “Poverina, vorrai mica chiudere le porte e lasciarla da sola”, dice mia moglie».
Ed è così che non appena andiamo a dormire la belva sale sul letto e incomincia a giocare. Luisa le dà corda e muove rumorosamente i piedi, al che Raven va in mattana e salta avanti indietro morsicando e graffiando ogni cosa a tiro. Naturalmente anch’io sono parte attivo del gioco, dal momento che non è che posso rimanere immobile. C’è poi da dire che Raven è furba e svelta come una faina – in questo ha preso da me – e non appena vede un piccolo movimento ci zompa sopra. La cosa ha poi una certa bellezza e ilarità. Avete presente Alberto Camerini e la sua Rock’n’ roll robot? Ecco, Raven nelle movenze e nei scatti improvvisi che fa mi ricorda un robot. Si muove proprio come il testo di quella canzone lì degli anni ’80, come si muoveva lo stesso Camerini cantandola: a scatti.

Io ti voglio,
io ti cerco,
io ti amo,
rock’n’roll robot
Oooh oooh rock’n’roll robot, robot, robot…

Ci sono poi, per fortuna, due punti a mio favore.
Il primo: i gatti dormono in media dalle 16 alle 20 ore: e VAI!!!
Il secondo: si dice che sono i gatti a scegliere: dove stare, cosa mangiare, dove dormire.
DOVE DORMIRE: è questo il nocciolo del problema, eh… grandissimo colpo di culo, Raven si è abituata a dormire sul mio comodino: EVVIVA! Io, ben felice, l’ho lasciato completamente libero – libri, agenda, cellulare spostati altrove -; e lei, dopo averci fracassato, cotta a puntino, ci salta sopra e si addormenta.
Ieri sera? Dalle 22,00 alle 5,00 ha dormito sul comodino, poi – completamente sveglia e assatanata – è piombata sul letto a giocare.
Una tragedia, per me.
Mia moglie? «Poverina è una cucciola, non può mica dormire sempre».
Tenete presente che prima quando mi alzavo alle 6,30 per andare a lavorare era molto ma molto meno comprensiva: «La smetti di fare tutto questo casino, che voglio dormire?».

Quando poi mi domandano di Raven, niente di particolare le solite domande zuccherose, tipo «Gliele fai le coccole? Le vuoi bene?», rispondo scocciato: «Certo che le voglio bene, non sono mica insensibile».
Ma se devo essere sincero, se volete sapere la pura e semplice verità, quando la sera torno a casa mi sciolgo, divento tenero come il burro. «È vero Revina che sei la mia cucciolotta bella? Ma sì che ti voglio bene sì, sì, sì. Sei la mia maialina grassa e sei furba e bella come il tuo papà». E parlo con quella vocina da handicappato con cui tutti gli adulti parlano a neonati e cuccioli vari. E non so il perché. Lo giuro non lo so proprio. A dir la verità non me ne accorgo nemmeno. Sto scrivendo di questa cosa perché Luisa ha fatto dei video in cui mi sono rivisto, risentito. Si vede che è più forte di me. Deve essere tipo una malattia o una disfunzione, vacci a capire qualcosa.

E poi è una gatta zen.
Davvero!
Dovremmo prenderla da esempio e fare come lei: “EgoistacertoPerché noPerché non dovrei esserlo?”, e difatti le parole del grande Vasco (Cosa succede in città) cadono a fagiolo per la mia micia, perché quando non dorme e non mangia se la gode come una matta: salta, corre, gioca. Vive intensamente ogni attimo della sua vita per quello che è: unico e irripetibile! Mi ricorda Franci da bimbo, così felice che si metteva a ridere perfino nelle sue prime partitelle di calcio; e mi ricorda l’Elly, così carica di energia che invece di camminare saltellava, perfino quando scendeva dalla macchina per andare a scuola; e infine, Raven mi ricorda il piccolo Robby che ero: il piccolo Robby, sì, anche lui andava in mattana per un nonnulla, così su di giri da rompere i coglioni al mondo intero. Cosa direbbe il piccolo Robby se ci incontrassimo? Se vedendomi gli venisse rivelato il futuro? Lui che la vita era una meraviglia: cortile, palla, corsa, nascondino, abbracci, risate, piscina, amici, chiacchiere, compagnia, feste, ragazze, baci, motorino.

Motorino: era più facile conoscere le ragazze, col motorino. Io e miei amici avevamo fatto un patto: ogni ragazzina che incontravamo l’avremmo fermata, ci avremmo provato. Conquistarle era poi un’altra storia, ma che importa – be’, m’importava eccome, vorrei vedere voi: preferireste una nuova conquista o un ennesimo rifiuto? M’importava dunque, così come m’importa di avere successo adesso. Ma allora era tutta un’altra cosa: quei primi incontri trascendevano dal risultato finale, stracolmi com’erano d’attesa e desiderio e di vita.

La prima volta la incontrai con gli altri. Lei a piedi, noi in motorino. Non mi ricordo più il nome. Fa niente. Un nome è solo un nome. Sopravvalutato! È mille volte meglio un sorriso, uno sguardo, una curva, una cascata di capelli, un profumo invece di un nome. Ci rispose a monosillabi e proseguimmo. Ma aveva fatto breccia in me, e alla fine tornavo sempre lì, in quella strada non lontano da casa, vicino alle Carducci: le scuole medie che mi pareva di aver finito da un secolo, allora.
Poche, pochissime volte sono stato così sincero come con lei.
«Sei proprio bella», le dicevo.
«Mi piace un altro», rispondeva. «Non tornare più».
Ma lo diceva sorridendo, e si vedeva che le faceva piacere essere corteggiata. Era solo una ragazzina ma per questo gioco era già una donna: e a quale donna non piace essere corteggiata?
Io non demordevo, e ogni volta che ci incontravamo ingaggiavamo la nostra partita. Pensavo: Mi sembra così evidente che siamo perfetti l’uno per l’altra. Ne ero davvero convinto: rapito com’ero dai suoi occhi, dal suo sorriso. E glielo dissi.
«Siamo perfetti insieme».
Quella volta rise.
Era la classica bionda che se la tira, avete presente? Un po’ stronzetta. Ma quanto mi piaceva.
Una volta, una volta sola riuscii a caricarla sul motorino.
La portai in gelateria.
Lo so, non è questo grande aneddoto, ma mi strinse, mi abbracciò, e me lo feci bastare. E poi allora, quando le cose non andavano, come la stramaggioranza delle volte -, come con Lisa: Lisa, ecco sì, è questo il suo nome; quando le cose non andavano, dicevo, non mi scoraggiavo mai: troppo forte il desiderio di conoscere, arrotolarsi, strofinarsi, appiccarsi.

E dunque: dov’è finita quella voglia di vita che c’era?
Adesso che ogni cosa mi viene a noia.

«Eh Raven? Cosa dichi te? Dov’è finita quella voglia che non c’è pù?»
« Pù!».

Come colonna sonora dell’articolo ho scelto Rock’n’ roll robot, di Alberto Camerini.
Qui, potete vedere il video.

P.S. Onore a quelli che sono al di là del fiume: le teste quadre, che dopo 21 anni sono tornati in serie B. Noi modenesi siamo così generosi da avergliela messa lì noi, quella promozione, e su un piatto d’argento; quando dopo nemmeno un anno – la Reggiana in difficoltà economiche -, abbiamo disfatto la nostra nuova proprietà, provocando così la scissione fra Sghedoni e i restanti soci, e favorendo così l’ingresso di Amadei, Salerno e il direttore sportivo Tosi alla odiata Regia.
Rob da matt!

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Sono nato a Modena nel 1964 e vivo in un paese che è parte dell’Unione dei Comuni del Distretto Ceramico. Da 35 anni faccio piastrelle. Mi occupo di ricerca. Crescere, crescere, crescere: non esistono altri obbiettivi. Ogni anno è una sfida. Sposato con due figli, da quattro anni scrivo su questo blog. Ma fin dal primo articolo ho capito che recensire un libro, un film o una canzone non è che un pretesto per raccontarmi: pensieri, passioni, desideri. Ricordi. Il vero scopo è fermare il tempo. Trattenere il più possibile istanti di felicità.

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