di Agota Kristof (1935 – 2011), scrittrice ungherese naturalizzata svizzera. È composta da tre parti, pubblicate nell’edizione originale separatamente: Le Grand Cahier [1986], La Preuve [1988], Le Troisième Mensonge [1991] Editions du Seuil, Paris. Uscite in Italia e in un unico romanzo nel 1998, Einaudi editore.
È innanzitutto una storia che non si dimentica. Una storia incredibile, ambientata in un paese dell’est Europa e durante la seconda guerra mondiale.
Ma se la storia mi ha sorpreso la scrittura mi ha letteralmente risucchiato, dalla prima all’ultima riga, da quanto è nuda e cruda, da quanto è semplice. Forse perché a raccontarla sono due ragazzini? Due gemelli adolescenti che una madre disperata è costretta ad affidare alla nonna. Sono loro i protagonisti del romanzo. Mi hanno ricordato La vita davanti a sé di Romain Gary. Anche in questo caso è un bambino a raccontarsi. Anche in questo caso ci sono molti dialoghi, poche divagazioni e pochissime descrizioni. La stessa prosa asciutta. Mi viene in mente un modo di dire popolare: parla come mangi. È per questo che ho amato e tanto entrambi i libri. Sono credibili. Non so voi, ma io ci ho pensato spesso a questa cosa, e ho sempre trovato artificiosi quei libri in cui i protagonisti tirano fuori paroloni che nemmeno Umberto Eco; che per descrivere un paesaggio, tra metafore e licenze poetiche, non la finiscono più. Niente di strano se a raccontarsi è un luminare della letteratura, che so un poeta o comunque un intellettuale con una sensibilità spiccata. Ma quando è un bambino? Quando è un semplice scaricatore di porto che non sa nemmeno leggere e scrivere?
E non voglio dire che i bambini o uno scaricatore di porto non possano essere poeti. Lo possono essere eccome, sì! Ma con un vocabolario semplice. Ecco tutto!
Nostra Nonna è la madre di nostra Madre. Prima di venire ad abitare da lei non sapevamo che nostra Madre avesse ancora una madre.
La chiamiamo Nonna.
La gente la chiama Strega.
Lei ci chiama figli di cagna.
Parole semplici dunque. Ma non dovete pensare che i due ragazzi usino solo parole elementari, pensieri grammaticamente scorretti.
Nonna ci picchia spesso, con le sue mani ossute, con una scopa o uno strofinaccio bagnato. Ci tira per le orecchie, ci agguanta per i capelli.
Altre persone ci danno anche dei ceffoni e dei calci, non sappiamo nemmeno perché.
I colpi fanno male e ci fanno piangere.
Le cadute, le sbucciature, i tagli, il lavoro, il freddo e il caldo sono ugualmente causa di sofferenza.
Decidiamo di irrobustire il nostro corpo per poter sopportare il dolore senza piangere.
Cominciamo con il darci l’un l’altro dei ceffoni, poi dei pugni. Vedendo il nostro volto tumefatto Nonna domanda:
– Chi vi ha fatto questo?
– Noi, Nonna.
– Vi siete picchiati? Perché?
– Per niente, Nonna. Non vi arrabbiate, è solo un esercizio.
– Un esercizio? Siete completamente suonati! Bah, se la cosa vi diverte…
Siamo nudi. Ci colpiamo l’un l’altro con una cintura. Diciamo a ogni colpo:
– Non fa male.
Colpiamo più forte, sempre più forte.
Passiamo le mani sopra una fiamma. Ci incidiamo una coscia, il braccio, il petto con un coltello e versiamo dell’alcol sulle ferite. Ogni volta diciamo:
– Non fa male.
Nel giro di poco tempo non sentiamo effettivamente più nulla. È qualcun altro che ha male, è qualcun altro che si brucia, che si taglia, che soffre.
Non piangiamo più.
Quando Nonna è arrabbiata e grida, noi le diciamo:
– Smettetela di gridare, Nonna, picchiate invece!
Quando ci picchia, le diciamo:
– Ancora, Nonna, ancora! Guardate, porgiamo l’altra guancia, com’è scritto nella Bibbia. Colpite anche l’altra guancia, Nonna.
Lei risponde:
– Andate al diavolo, voi, la vostra Bibbia e le vostre guance.
Troppo forte è la loro voglia di crescere, prevalere, irrobustirsi: il corpo così come lo spirito. Se con la madre avevano finito i primi tre anni di scuola, nella nuova casa continuano gli studi da soli, da autodidatta. Con l’aiuto del dizionario del padre e della Bibbia (trovata nella soffitta di nonna), procurandosi matite, carta e un Grande Quaderno su cui copiano, in bella, i temi che si correggono a vicenda. Temi che, come un diario, non sono altro che la loro storia. Questa storia.
Non è certo un caso che Il grande quaderno è anche il titolo della prima delle tre trilogie che compongono il romanzo. Se in questa prima parte c’è una certa linearità e nonostante le tante sorprese si è convinti di aver capito tutto, nella seconda – La prova – si mette in dubbio tutto quanto, confondendo realtà e fantasia. È in questa seconda parte che i due gemelli si dividono. È una loro scelta. Un’ulteriore prova di irrobustimento. Lasciare andare l’altra parte di sé stessi, per diventare più forti.
L’ultima parte – La terza menzogna – è la resa dei conti. Un finale inaspettato. Crudele. Sconvolgente. Com’è poi il libro stesso.
E alla fine nemmeno Lucas e Klaus – a proposito sono questi i nomi dei due gemelli – saranno immuni al peggiore degli inconvenienti della vita: l’infelicità. Tutti i loro esercizi per irrobustire corpo e mente si dimostreranno inutili. Troppo pretenzioso l’obiettivo. Troppo forte l’avversario.
È questo il grande insegnamento che mi ha lasciato il libro: la felicità non si raggiunge con il ragionamento, come un qualsiasi calcolo matematico. Anzi, il pensiero non è che il più grosso degli ostacoli. Noi umani ci crediamo speciali. Un gradino sopra tutto e tutti. Eppure, se ci confrontiamo con madre natura, non siamo che semplici prestigiatori da quattro soldi. Smascherati non appena il gioco si fa duro.
E a pensarci bene la differenza principale che ci distingue dagli animali è proprio la grande capacità che abbiamo di immedesimarci negli altri: l’empatia.
Ma a cosa serve crogiolarsi sui dispiaceri?
Straziarsi dal dolore, nel vedere soffrire i nostri cari?
Parola, linguaggio, tecnologia, informatica: ci siamo evoluti al punto da crederci invincibili. Ma – pur con il più alto quoziente intellettivo – non riusciremo mai a sconfiggere la morte.
Lo so è difficilissimo.
Eppure abbiamo degli insegnanti eccezionali. Illuminati. Ogni creatura non umana di questo pianeta. È da loro che dovremmo imparare ad ascoltare il nostro corpo. Vivere il presente lasciando andare i pensieri, le cose che ci accadano: sia quelle belle che quelle brutte.
Vivere leggeri!
Let it be.


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